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 2019  gennaio 24 Giovedì calendario

Come è rinato il New York Magazine

Il New York Magazine è una delle riviste di carta più belle del mondo, moderna, innovativa, protagonista del dibattito politico, anticipatrice con le inchieste sulle violenze sessuali del movimento #MeToo, vincitrice di Pulitzer e dal 2004 a oggi anche del maggior numero di National Magazine Awards rispetto a qualsiasi altra pubblicazione americana. Negli ultimi anni, come tutta l’editoria di carta, ha sofferto l’impatto delle innovazioni tecnologiche sui ricavi da edicola e da inserzioni pubblicitarie, sicché da settimanale è diventato quindicinale, ma con la guida di Adam Moss, il geniale direttore che lascerà a marzo dopo 15 anni al timone, è stato capace di reinventarsi nel mondo digitale e di costruire un nuovo modello di business fondato sul giornalismo di qualità, sui nuovi consumi culturali e sulla loro fruizione online, senza per questo far perdere lustro, anzi, all’edizione cartacea che resta il biglietto da visita del gruppo editoriale guidato da Pam Wasserstein.
Riviste verticali
L’idea di Moss è stata quella di trasformare il sito del giornale in una piattaforma di cinque riviste verticali e autonome, costruite intorno alle sezioni o alle rubriche del fascicolo di carta. Ora il New York, quindi, è sempre una rivista di carta, che vende 53 mila copie, cui se ne sono aggiunte cinque online, Vulture, Intelligencer, The Cut, Grub Street e The Strategist, che in totale hanno circa 50 milioni di lettori unici al mese. Vulture nasce come una sezione del giornale di carta, ma si è trasformato in un rotocalco quotidiano online su serie tv, cinema, musica, libri, arte e anche in una guida tv del XXI secolo per orientarsi tra le programmazioni streaming, con riassunti e analisi degli episodi trasmessi. Dentro Vulture, che è il sito di maggiore successo del gruppo, c’è anche una sezione «Comedy» sulla scena comica americana, nata dopo l’acquisizione del sito Splitsider. Una volta l’anno, Vulture organizza un festival a Los Angeles e da poco offre anche una membership a pagamento, Vulture Insider, a lettori cui sono riservate anteprime, incontri esclusivi e altro. 
Intelligencer è il verticale su politica, business, tecnologia e idee, molto seguito grazie alle inchieste e ai commenti di grandi firme come Andrew Sullivan, Frank Rich, Rebecca Traister e Jerry Saltz. The Cut è il femminile, con la moda, lo stile e le tematiche politiche e culturali sull’emancipazione della donna. Il percorso di The Cut spiega molto bene come carta e digitale possano nutrirsi a vicenda, visto che è nato come un blog di moda, è diventato poi una sezione sul giornale di carta e si è trasformato in una rivista quotidiana online che, grazie al successo tra i lettori e gli investitori, ora è anche un magazine di carta pubblicato in occasione della settimana della moda newyorchese (il prossimo numero esce il 4 febbraio). The Cut genera anche eventi live, podcast e una linea di t-shirt con i titoli del sito diventati virali. Grub Street è un magazine sul food, sui ristoranti di New York, con due guide molto apprezzate: Cheap Eats, sul mangiare a buon mercato, e la nuova The Thousand Best, con i mille posti migliori della città. The Strategist, infine, è un magazine di consumi che si ispira alle rubriche del magazine The Passionate Shopper e Best Bets e che, soprattutto, apre le porte a ricavi da e-commerce, cioè a una percentuale sui prodotti venduti dai partner sul modello di Wirecutter, il sito acquistato nel 2016 dal New York Times per 30 milioni di dollari.
La sorte della pubblicità
«La pubblicità - dice a La Stampa Daniel Hallac, Chief Product Officer di New York Media – costituisce più di metà dei nostri ricavi, ma nonostante continui a crescere è una parte destinata a diventare sempre più piccola visto che gli altri business crescono a un ritmo più veloce. L’e-commerce, per esempio, è cresciuto di quattro volte e in un anno ha generato un giro di affari di 100 milioni di dollari per i nostri partner commerciali». Il magazine ha anche un’agenzia creativa, «New York Stories», che fornisce contenuti multimediali, consulenze strategiche e organizzazione di eventi all’altezza del blasone della rivista ad aziende e marchi che investono sul gruppo denari ulteriori rispetto ai sempre più ristretti budget pubblicitari. «Siamo molto ottimisti anche sulla vendita delle licenze del sistema di gestione editoriale Clay, dal nome del nostro fondatore Clay Felker – dice ancora Daniel Hallac – Clay è una piattaforma molto moderna che abbiamo sviluppato internamente e che abbiamo dato in licenza a Slate, golf.com, radio.com e ad altri editori con cui stiamo chiudendo gli accordi».
A fine dicembre, sul New York è stato costruito un paywall da 5 dollari il mese, e 70 l’anno, che scatta in modo dinamico pesando non solo il numero degli articoli letti, ma anche la quantità di tempo trascorso sui siti, la periodicità di consultazione e altri fattori. L’azienda non fornisce dati precisi, così come non comunica se fa utili, ma assicura che le prime proiezioni sono molto promettenti. È cominciata, insomma, la transizione del New York Magazine verso un modello di business di abbonamenti ed e-commerce, ma saldamente fondato su un giornale nazionale che guarda le cose con il punto di vista newyorchese, ovvero intelligente, scettico, ottimista e dotato di un impertinente senso dell’umorismo. 
Il futuro
Il tono di voce è lo stesso di quando cinquanta, quasi cinquantuno anni fa, un gruppo di giornalisti guidati da Clay Felker, Tom Wolfe, Gloria Steinem e dal leggendario art director Milton Glaser, poi noto per aver ideato il logo «I love New York» con il cuore rosso al posto della parola «love» e per l’immagine più iconica di Bob Dylan, crearono una rivista che sposò il cosiddetto New Journalism, una definizione coniata da Tom Wolfe nel 1973 per descrivere una nuova forma di giornalismo, distesa e letteraria, capace di portare il lettore vicino alle persone e ai luoghi reali con dialoghi, descrizioni, dettagli, persino il monologo interiore, e tutte le tecniche tipiche della fiction. «Quanto deve essere lungo l’articolo», chiese una volta Tom Wolfe al direttore Felker. «Fino a quando diventa noioso», fu la risposta. Radical Chic, la cronaca di un party con le Pantere Nere nella Penthouse di Leonard Bernstein su Park Avenue, è uscito in due puntate sul New York Magazine così come molte altri articoli che hanno fatto la storia del pop americano, a cominciare dal reportage del 1975 dalla scena disco, etnica e gay, di Brooklyn intitolato Tribal Rites of the New Saturday Night, poi diventato il film La Febbre del Sabato Sera, il cui autore però si fece prendere la mano tanto da confessare vent’anni dopo, sempre sul New York, di essersi inventato la storia del personaggio poi reso celebre da John Travolta e dalla musica dei Bee Gees.
Ad agosto, il Wall Street Journal ha scritto che la famiglia Wasserstein sta prendendo in considerazione l’ipotesi di vendere il gruppo e la replica è stata che fare accordi per crescere e sostenere qualche acquisizione potrebbe anche essere una possibilità. Comunque vada a finire, la trasformazione del New York dimostra che un tradizionale editore di carta può inventarsi nuovi prodotti digitali e che un brand con origini locale può influenzare il dibattito pubblico nazionale, a patto che dietro ci sia un’idea editoriale forte e non si faccia intimidire dalla sfida dell’innovazione. Il nuovo direttore, David Haskell, sintetizza così la missione dell’industria editoriale: «Il futuro è nostro amico, anche quando è preoccupante; noi ci occupiamo di futuro, è questo il nostro tema».