Mentre intorno al concetto di possesso palla il calcio continua a vivere lo scontro decennale fra offensivisti e difensivisti, nel basket il dibattito ideologico si sta concentrando sul tiro da tre punti: adottato dall’Nba nel 1979 e poi in Europa, ha cambiato il modo di attaccare e la fisionomia del gioco. I critici lo chiamano: “circo”. Gli Houston Rockets di Mike D’Antoni sono la squadra che tira di più dalla linea dei 7,25: 2041 tentativi in stagione (col 35%). La settimana scorsa hanno battuto il record Nba con 70 tentativi in una partita. In Italia si ricorda Sassari di Sacchetti, tricolore nel 2015 giocando così.
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NEW YORK Mike D’Antoni ha perso i baffi e ritrovato se stesso. A 67 anni, in jeans, sneakers rosse, asciutto dentro una polo blu, le mani in tasca, da coach di Houston se la ride: ha superato le 600 vittorie da allenatore. Dopo 18 stagioni in Nba e le delusioni di New York, non si sente più precario. In lui la leggerezza ha qualcosa di preciso e privo di fretta, come nei personaggi di Calvino. «Seicento vittorie vuol dire solo che ho allenato tanto e ho avuto buoni giocatori. Sono più saggio? Non credo, altrimenti farei giocare i miei in modo diverso, ma mi diverto già così».
Appena D’Antoni entra nella palestra del Baruch College, a Manhattan, per l’allenamento della vigilia prima della sfida ai Knicks, i giocatori sul parquet lo salutano. James Harden, ultimo a entrare, cappuccio tirato su ma senza la sobria giacca leopardata, gli lancia un sorriso. Sono gesti di gratitudine verso l’uomo che li fa giocare tutti come al playground. I Rockets sono un circo da 112 punti di media a partita. Harden ha segnato più tiri da tre di tutti, anche di Curry. Il Barba ne tenta tredici a gara, contagiando i compagni: contro Brooklyn i Rockets hanno tirato 70 bombe, mettendone a segno un terzo.
Trend generale: dieci anni fa il top era Orlando con 27 tentativi, ora le squadre arrivano a 40. Ma quando c’è Houston è un’altra storia, più che una squadra è uno stato dell’anima: vanno veloci e tirano da ogni posizione. In tribuna è tutto un wow, noooo, uhhhhh. Quando la palla ce l’ha il Barba, la gente affonda la mano nel bicchiere dei pop corn. «Tutti sanno che farà lo step back, ma non riesci a fermarlo, è divertente», ammette D’Antoni, sorridendo.
D’Antoni, la verità è che il tiro da tre sta trasformando questo gioco: una conclusione su due è dall’arco. Il suo collega, Gregg Popovich, dice che non è più basket. Lei che cosa pensa?
«La vita cambia come insegnano i dinosauri. Il tiro da tre esiste, se non lo usi sei indietro. Noi abbiamo anche altre soluzioni ma quel tiro lo cerchiamo Può non piacere, lo capisco, ma ci sono giocatori diversi rispetto al passato. Giocano meglio, sanno fare più cose, i lunghi tirano da fuori, per me è un’evoluzione del gioco».
Con Harden in squadra l’evoluzione va ancora più veloce.
«Non riesci a fermarlo, sai che farà quel passettino indietro, ma quando decide di tirare lui tira, non c’è storia. Io lo trovo molto divertente».
Un giorno avremo il “tiro da quattro”?
«Il regolamento lo vieta».
Per ora…
«Magari un giorno ci arriveremo, ma forse non allenerò più».
In Italia molti appassionati storcono la bocca.
«Per quale motivo?».
Dicono che così la Nba non è più sport ma circo, e che il vero basket si gioca in Europa. Cosa ne pensa?
«Penso che è molto meglio la Nba, non ho dubbi. Abbiamo i migliori, in Europa giocano bene ma non sono neanche vicini al livello di qui».
Neanche dal punto di vista tattico?
«Contano i giocatori con il loro talento, gli allenatori fanno quello che possono».
Questo spiega perché in Nba ci sia solo un capo allenatore europeo: Igor Kokoskov, a Phoenix.
«Allenare qui è difficile per chiunque, anche per gli americani. Gli europei devono fare gli assistenti per anni e anni e anni per poter capire bene, molti non sono disposti e preferiscono restare a casa».
Però in Europa il basket è in crescita: i lunghi che sono arrivati qui sanno fare tutto.
«Segno del talento. Nella Nba hai i migliori. Jokic e Doncic sono bravi in tutte le zone del campo».
Lei cita Doncic, 19 anni. Si aspettava un impatto così?
«No, ma solo perché non lo conoscevo per niente».
Houston ha già perso più partite rispetto alla scorsa stagione, ma è risalita. Ha avuto paura?
«Ho sempre paura, anche ora ho paura, perché non puoi sapere come andranno le cose. Abbiamo avuto infortuni e molti nuovi da inserire. L’obiettivo è crescere per i playoff e vincere l’anello».
La parentesi deludente di New York è lontana.
«Senza quella, ora sarei a quota settecento».