la Repubblica, 24 gennaio 2019
Il ritorno della performance al museo
Le code così lunghe fuori da Palazzo Strozzi, non le avevano mai viste. Ma forse al di là del fenomeno Marina Abramovic, artista iconica e globale, capace di polverizzare i record precedenti (180 mila visitatori in tre mesi a Firenze) quello che The Cleaner ci racconta è che sta crescendo nel pubblico l’interesse per la performance art, la più immateriale delle espressioni. Facile da riprendere col cellulare, volatile, “instagrammabile”, molto social. Naturalmente non è solo per questo, ma questo aiuta. E se da anni sono molti i musei e le gallerie che ospitano performance, da qualche tempo si comincia a pensare di acquisirle nelle collezioni permanenti.
Il primo a muoversi su questa strada è stato il Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato che ha inserito in collezione un’opera di Fabio Mauri, uno dei maestri dell’avanguardia del secondo dopoguerra: Senza titolo, anno 1992, in comodato. Si svolge in una stanza dove c’è uno specchio, una sedia e molti abiti appesi: è uno spogliarello al rovescio. Entra in scena una ragazza nuda che sceglie abiti e, sotto gli occhi del pubblico, si veste. Il Pecci si è assicurato un prestito a lungo termine con la possibilità di reenactment, di replicarla. Infatti un anno fa è stata messa in scena da una performer (l’autore è scomparso nel 2009). Come un quadro tirato fuori dai depositi e riesposto in mostra. Dopo i dipinti, le sculture, le fotografie, i video, le installazioni, questo sembra un nuovo orizzonte: “reclutare” e conservare la performance art.
Siamo soltanto all’inizio di un percorso che Moma, Tate Modern, grandi centri per l’arte contemporanea, ma anche più piccoli come il Serralves di Porto, percorrono da tempo. Oltre ad esporre la documentazione (video e foto) o gli oggetti usati dall’artista in una perfomance – cosa che succede da anni –, adesso si pensa ad aggiudicarsi il “copione”, la messa in scena e la possibilità di riprodurlo dal vivo con altri interpreti. Fra i pionieri, il Pecci, con l’ex direttore Fabio Cavallucci: «È ancora una nicchia, ma interessante. È un linguaggio dalla natura effimera però segnala un bisogno di immaterialità da non perdere», dice Cavallucci parlando da New York dove sta curando un progetto (per The Shed) sulle performing arts. «È come se acquistassimo degli spartiti dove al posto della musica c’è un copione con istruzioni su ambienti, movimenti ed eventuali dialoghi», spiega Cristiana Perrella attuale direttrice del centro per l’arte contemporanea di Prato. Loro in collezione hanno tre performance di diversi artisti, ma una quarta che sarà rappresentata a primavera, Che cos’è il fascismo sempre di Fabio Mauri, potrebbe aggiungersi presto. Il museo ha incaricato un legale di redigere i contratti.
Perché le questioni che si aprono sono tante: si può trasmettere una perfomance, cioè un’azione o una sequenza di gesti immaginati da un’artista che si muove nell’ambiente con linguaggi verbali e non? Ha senso farla interpretare da terzi? È un tradimento rispetto all’originale? Quando sono nate queste forme espressive, negli anni ‘60-‘70, ci si pose subito il problema di come conservarne la memoria: «Di solito si espongono foto e video, la documentazione di quello che è avvenuto – spiega Bartolomeo Pietromarchi, direttore del Maxxi di Roma – da qualche tempo però abbiamo anche noi cominciato ad acquisire le performance in collezione». Per esempio, una di Bruna Esposito che dura tre mesi e che vede l’artista ricostruire un tappeto di semi che alla fine viene distrutto. «Abbiamo sottoscritto un accordo in cui l’autrice ci consente di replicarla, con indicazioni precise». Una mappa di istruzioni. Come fa Marina Abramovic che seleziona i performer e descrive minuziosamente in un capitolato come le sue “invenzioni” devono essere riprodotte: è successo a Firenze col reenactment di The House With a Ocean View, interpretata dalla finlandese Tina Pauliina Lehtimaki (per 12 giorni in silenzio e a digiuno davanti al pubblico). «Per me è stato vivere la performance in una nuova generazione», ha detto l’artista serba.
Sul fatto che la performance art sia un tema d’attualità di cui si discute concorda Iolanda Ratti, conservatrice del Museo del Novecento di Milano: lì lo scorso anno sono state proposte diverse performance, ma nessuna è in collezione. Chi invece ne ha diverse è la Tate Modern di Londra: sedici fra cui David Lamelas e Simone Forti. «Le eseguiamo a rotazione – spiega Andrea Lissoni, senior curator di film and international art – credo che i musei pubblici siano il luogo naturale per conservarle. Cosa rende possibile il loro ingresso in collezione? La garanzia che diamo nel preservare l’opera anche nel suo riallestimento. Per farlo non solo acquisiamo lo score della perfomance, ma passiamo ore a registrare un dialogo con l’autore e porgli innumerevoli domande. Del resto nessuno impedisce che uno spartito venga eseguito nel tempo in modo più o meno differente benché fedele allo spartito originale».