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 2019  gennaio 24 Giovedì calendario

Regeni, i verbali che inchiodano i servizi segreti egiziani

La fine di Giulio Regeni è la storia di un omicidio di Stato per il quale, ad oggi, sono indagati per sequestro di persona dalla Procura di Roma cinque uomini degli apparati di sicurezza del Regime egiziano di Al Sisi. Ora, a tre anni di distanza dal ritrovamento del corpo martoriato del giovane ricercatore di Fiumicello sulla superstrada Cairo-Alessandria, Repubblica è in grado di ricostruire i passaggi chiave di questo scempio dando conto — attraverso le inedite testimonianze rese nel tempo dagli agenti e gli ufficiali della National Security, il Servizio segreto interno del Regime, alla magistratura egiziana e italiana e oggi agli atti dei due procedimenti — del coinvolgimento diretto degli apparati del Regime nel sequestro, nella tortura e nell’omicidio di Giulio. Si tratta, come vedremo, di ricostruzioni spesso monche, contraddittorie o omissive. E tuttavia illuminanti nello svelare alcuni dettagli sin qui ignoti della vicenda e nel documentare la catena di menzogne con cui il Regime ha coperto e continua a coprire chi diede l’ordine di eliminare un ragazzo la cui unica colpa era essere diventato, suo malgrado, l’oggetto delle paranoie degli apparati di sicurezza di quel Paese.


Il tradimento di Abdallah
Nel dicembre del 2015, Mohammed Abdallah, 47 anni, carta d’identità numero 27202092502078, è il leader del potente sindacato degli ambulanti. Vive nel quartiere di Imbaba, è un ex giornalista di gossip e, soprattutto, è un uomo spregiudicato. Il suo vero mestiere è quello dell’informatore di polizia.
Perché a questo gli ambulanti sono stati piegati dal Regime. A capillare strumento di controllo delle strade e delle voci di una megalopoli come il Cairo. Ad Abdallah, Giulio si è affidato per la sua ricerca sul campo.
Racconta l’ambulante: «Controllavo 1.250 venditori ambulanti nella zona di Ramses e 1.750 in centro. Aiutavo Giulio nella ricerca e l’ho conosciuto all’inizio del dicembre del 2015 attraverso Hoda Kamel, la direttrice dell’Egyptian Center for Economic and Social rights».
Si tratta di un’Ong con cui Giulio entra in contatto, indirizzato dalla co tutor dell’università americana del Cairo, Rabab. «È stata lei a contattarmi e a insistere — continua Abdallah — perché all’inizio mi ero rifiutato di incontrarlo. Prima di Giulio mi aveva mandato già due ricercatori. Giulio voleva sapere da me l’esatta natura del nostro sindacato (…). L’ho fatto incontrare con cinque, sei ambulanti. Lui parlava bene l’arabo».
Abdallah impiega poco a vendere Giulio come spia agli apparati di sicurezza egiziani.
Verosimilmente perché pensa di ottenerne un vantaggio o, altrettanto verosimilmente, per vendetta, quando capisce di non poter contare sulla complicitàdel ragazzo nel mettere mano sulle 10mila sterline di un bando di ricerca internazionale destinato a un lavoro di ricerca partecipata in Scienze sociali di cui lo stesso Giulio gli aveva parlato in termini ipotetici. Sta di fatto che ai magistrati Abdallah prova a giustificare proprio con la storia di quella borsa di studio il motivo per il quale lo consegnò alla polizia egiziana. «C’era questa borsa di studio di cui Giulio mi aveva parlato su suggerimento di Hoda Kamel, perché il denaro sarebbe stato liquidato al suo Centro di ricerca. E così io incontro Giulio il 19 dicembre e poi il 6 gennaio. Ho pensato che fosse una spia perché la questione della borsa era sospetta: lui era un italiano, la gara era britannica…». Abdallah sostiene di aver sentito Giulio l’ultima volta il 23 gennaio 2016, al telefono. E giura di ignorare il movente del suo omicidio. «Sessuale, forse. Oppure poteva essere una spia e qualcuno dei Servizi esterni o interni lo ha ucciso».


Le verifiche sul ricercatore
È un fatto che, in quel dicembre del 2015, Abdallah denunci Giulio come «possibile spia». Lo fa andando a parlare del ragazzo con l’ufficiale di polizia Aser Kamal Mohamed, capo del Dipartimento investigazioni municipali del Cairo. Che, vista la natura della faccenda, si libera della pratica accompagnando il suo informatore negli uffici della National Security nel quartiere di Nasr City.
È in questo ufficio che Abdallah conosce i tre ufficiali che si occuperanno dell’inchiesta su Giulio. Quella che aprirà la strada alla sua condanna a morte. Sono il generale Tarek Ali Saber, 55 anni, tessera di riconoscimento 291/1984/19, il colonnello Husan Eldin Helmy Mohamed, 50 anni, tessera di riconoscimento 270/1990, e il colonnello Sherif Magdi Ibrahim Abdel Aal, 35 anni, tessera di riconoscimento 505/2005.
Il generale Tarek Ali Saber comanda la divisione della National Security Agency incaricata del «monitoraggio di sindacati, ong, organizzazioni politiche che operano illegalmente in Egitto». E affida al colonnello Sherif, che è uno dei suoi ufficiali, di avviare un’inchiesta per «verificare le informazioni che Abdallah ci aveva portato, e cioè che Giulio Regeni lo sfruttasse per ottenere informazioni dannose per l’Egitto».
Ai magistrati egiziani che lo interrogheranno più di una volta, il colonnello conferma la circostanza. Dice: «Abdallah mi parlò del Centro di Hoda Kamel, da cui era stato contattato. E della sua sorpresa nel conoscere la persona che era con la Kamel. Un italiano che parlava arabo. Temeva che questo straniero lo sfruttasse per ottenere informazioni dannose per lo Stato. E peraltro il Centro di Hoda lo consideravamo un’entità illegale. Quando il generale Tarek Saber decise di esaminare la denuncia, concordai con Abdallah delle riunioni tra lui e Regeni. Perché è vero che ci sono tanti ricercatori normali che fanno ricerche, ma bisognava approfondire il lavoro di Giulio. Abdallah mi parlò anche di un premio di diecimila sterline e, di sua iniziativa, cercò di ottenere maggiori informazioni da Regeni fingendo che le sue condizioni fossero difficili e di avere bisogno di denaro per curare la moglie e la figlia».
A quanto il colonnello racconta, la storia della borsa si rivela presto, anche per il Servizio, un sospetto di cartapesta. Dice: «Regeni rifiutò di rispondere alle richieste di Abdallah e lo informò che si sarebbe limitato ad aiutarlo a partecipare al bando.
Insomma, era una ricerca di normale routine, un sondaggio sulle condizioni dei venditori ambulanti. Accertammo che non vi erano rischi, a maggior ragione dopo che Mohammed mi portò una copia del bando. Le cose stavano così: Giulio Regeni era uno studioso italiano.
Soggiornava legittimamente in Egitto. Non rappresentava alcun pericolo per la sicurezza del Paese. La denuncia nei suoi confronti non presentava alcuna ombra di verità. Era il frutto delle elucubrazioni di Abdallah».


“Non è pericoloso”
A fine dicembre 2015, dunque, se il generale Tarek e il colonnello Sherif non mentono, l’inchiesta della Nsa su Giulio è formalmente chiusa. E con unnulla di fatto. Ricorda il colonnello: «Presentai al generale Tarek un memorandum verso la fine di dicembre che accertava l’assenza di qualsiasi attività aggressiva o pericolosa dell’italiano». Il generale Tarek conferma la circostanza. E dice qualcosa di più. Di una qualche importanza, a ben vedere. «Ricevetti la nota dal colonnello. E trasmisi quella stessa nota di fine indagini alla Procura di Gyza subito dopo il ritrovamento del corpo di Giulio Regeni il 3 febbraio del 2016».
Il dettaglio è cruciale. Perché consente di documentare come, nei giorni successivi al 3 febbraio 2016, la magistratura egiziana e con lei l’intero vertice del Regime, dall’allora ministro dell’Interno Mohammed Ghaffar allo stesso presidente Al Sisi, mentirono sostenendo che Giulio Regeni era persona «ignota» agli apparati di sicurezza del Paese. Non solo non lo era, infatti. Ma un documento interno, condiviso con la magistratura che in quel momento procedeva agli accertamenti, documentava il contrario. Indicando quando, chi e perché avesse indagato su Giulio e quali fossero state le conclusioni.


Il giallo della telefonata
Certo quella nota, dal contenuto inconfutabile, potrebbe essere stata confezionata a posteriori dalla Nsa per scagionare se stessa dalle responsabilità nell’omicidio di Giulio. E, a ben vedere, l’ipotesi trova un suo fondamento nella circostanza, nota, che i pedinamenti e l’osservazione di Giulio sono proseguiti fino al giorno della sua scomparsa. Con il video registrato dalle cimici e dalla telecamera con cui era stato armato Abdallah nel suo incontro con Giulio il 6 gennaio. Con la visita nell’appartamento di Giulio durante la sua assenza per le vacanze di Natale. E — si scopre ora — con una sorveglianza attiva il 25 gennaio 2016, il giorno del sequestro. I tabulati telefonici acquisiti dall’inchiesta indicano infatti che quella mattina, alle 11, il colonnello Helmy della National Security Agency, uno degli ufficiali che avevano istruito l’inchiesta su Giulio, chiama sul suo cellulare il colonnello Muntaser Abdelrhaim, responsabile della Polizia per il distretto di Dokki.
Non è dato sapere ovviamente cosa si dicano i due. Ma le celle collocano l’ufficiale della polizia in un luogo assai curioso: esattamente all’ingresso della fermata della metropolitana nel quartiere di Dokki dove Giulio scomparirà di lì a poche ore.
I magistrati egiziani interrogano il colonnello Helmy anche su questa circostanza. L’ufficiale non lavora più al Servizio ed è stato trasferito alla direzione Passaporti e immigrazione. Cade dal pero. Farfuglia. «Perché telefonai? Mah, normale routine…. Nulla di strano».
- 1. continua