Corriere della Sera, 24 gennaio 2019
Come si fotografa un lupo
«I lupi sono la mia ossessione da sempre. Li cerco da quando ero piccolo. Ma ci sono voluti anni prima che riuscissi a vederne uno. Erano due cuccioli nell’erba alta, sorvegliati dagli adulti. Da allora ho deciso che volevo conservare una prova di quegli incontri. Per non dimenticarli». Paolo Rossi, 35 anni, genovese, racconta così la nascita di una passione che è diventata un lavoro: il fotografo di lupi. «Nel mio epitaffio voglio che ci sia scritto: “cercava i lupi ma solo di rado riusciva a scorgerli”», ironizza. Il suo è un mestiere difficile perché, ci spiega, questi animali sono schivi, elusivi, «scaltri». Un aggettivo che Rossi ama ripetere spesso. «Se possono non si fanno trovare. Sanno che l’uomo è il loro principale nemico e se ne tengono alla larga – dice – Inoltre hanno sensi molto più sviluppati dei nostri e un manto mimetico che li rende praticamente invisibili quando sono immobili. Si spostano di notte e, nonostante quello che si dice, sono molto pochi rispetto al territorio in cui vivono. Io in vent’anni di appostamenti ne ho visti una trentina».
Praticamente estinti all’inizio degli anni 70 (quando del lupo italiano rimanevano circa 200 esemplari), sono progressivamente tornati a popolare gli Appennini e – in misura minore – le Alpi. Soprattutto grazie alla stretta salvaguardia legislativa della specie: di fatto dal 1971 ne è vietata la caccia. Oggi si stima che in Italia ce ne siano tra i 1.500 e i tremila. Ma sono ancora a rischio. Secondo il Wwf i lupi che ogni anno muoiono per mano dell’uomo (bracconaggio ma anche incidenti stradali) sono circa 300: uno ogni 29 ore. «I lupi non sono pericolosi. Non attaccano l’uomo a meno che non si trovino in situazioni estreme: come ad esempio se rimangono intrappolati in un recinto – racconta Rossi – Il problema è che, in luoghi dove non si era più abituati alla presenza di questo super predatore, può accadere che vengano attaccati animali negli allevamenti. E quindi subito si alza l’allarme. Ma gli esempi di convivenza ci sono».
Per trovare lo scatto perfetto a Rossi spesso servono giorni. Talvolta anni. «Scelgo di andare a cercare i lupi nei luoghi più selvaggi, dove la presenza umana è ridotta al minimo, e dove la mia presenza è meno invasiva possibile. Dove anche il panorama è più suggestivo: radure, praterie, faggete – ci spiega —. Oggi andrò a controllare una videotrappola a 1.500 metri di altitudine su un sentierino dove passano molti animali. Se le immagini hanno ripreso dei lupi mi apposto nelle vicinanze, nascosto tra le rocce o nei cespugli, attento alla direzione del vento per non tradirmi con il mio odore. Poi aspetto. Immobile, in silenzio. Per ore e ore. La maggioranza delle volte non accade niente. E continuo ad aspettare. In estate mi piazzo con la tenda vicino al luogo di appostamento e dormo lì. Poi la mattina ricomincio».
Maggiore è l’attesa, maggiore la soddisfazione per l’incontro. «Uno degli episodi che ricordo con più emozione è legato alla zona del Beigua. Sentivo i lupi ululare, trovavo le fatte ma non riuscivo mai a vederli. Per scattare la foto di una lupa di quel branco, bellissima, molto molto scaltra, con il muso quasi completamente nero, ci ho messo tre anni. Ma quando l’ho inquadrata con l’obiettivo ho provato un’emozione che non riesco a descrivere. Sono stato ripagato di tutto: la ricerca, il gelo, l’umido. Tutto».
Rossi ha già pubblicato alcuni libri fotografici e adesso sta seguendo un nuovo progetto. Un cortometraggio per raccontare la storia di un lupo in particolare. «Un animale che, dopo una fucilata, aveva perso una zampa ma, nonostante l’invalidità, ha continuato a mantenere il suo ruolo di leader nel branco». Si chiamerà «La vendetta del lupo monco»: «Stiamo facendo una campagna di crowdfunding e abbiamo il sostegno dell’associazione «Io Non Ho Paura Del Lupo». Ci teniamo molto perché è una storia che racconta come i lupi siano abituati a prendersi cura l’uno dell’altro. Ma ci permetterà anche di parlare del rapporto uomo-lupo. Un animale con cui abbiamo un legame atavico, per certi versi molto simili a noi, per le sue dinamiche sociali e familiari, ma che in qualche modo abbiamo abbandonato e tradito».