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 2019  gennaio 20 Domenica calendario

San Sebastiano, icona gay

Bozzetto di Léon Bakst per il Martyre de St.Sébastien Tutti i Santi sono icone, ma uno solo è icona gay. Capire come ci sia riuscito, Sebastiano, non è semplice: anzi se qualche altro esperto volesse intervenire con una lunga spiegazione ne sarei contentissimo (nel frattempo segnalo la più completa, a cura di Giovanni Dall’Orto) Quel che sono riuscito a capire è che (1) la Chiesa nega tutto; (2) probabilmente ha ragione, (3) l’associazione tra Sebastiano e omosessualità, anzi, tra Sebastiano e comunità LGBT (oh, lo dice wikipedia) è moderna, ma non modernissima: è già abbastanza data per scontata quando nel 1911 D’Annunzio scrive il Martyre de Saint Sébastien per le musiche di Claude Debussy e le mosse di Ida Rubinstein, ballerina dal fascino androgino. Per l’occasione la Rubinstein vendica i secoli di attori efebici prestati a ruoli femminili. C’è qualcosa di più scabroso di una ballerina russa bisessuale che interpreta un Santo che si fa trafiggere il torso denudato? Sì, una ballerina russa bisessuale ebrea. Pare che quella fosse la vera goccia che fece traboccare il vaso: il Sant’Uffizio mise all’Indice tutte le opere di D’Annunzio, che comunque in Italia non pensava di tornare: troppi ricordi, troppe storie finite male, e soprattutto troppi creditori insistenti e volgari. Ma come gli era venuto in mente di trasformare il pretoriano “favorito” di Diocleziano nel “favorito” nel senso di amante? Guido Reni: più torso che anima Mettiamo in chiaro una cosa: D’Annunzio non si inventa mai veramente nulla. È solo un enorme frullatore di cose che esistevano già. L’omosessualità di Sebastiano è probabilmente un’invenzione dei pittori italiani rinascimentali, che accantonano il santo adulto e villoso dell’iconografia medievale e si concentrano su un solo dettaglio: il torso. Più del seno di Agata, più degli occhi di Lucia, dal Cinquecento Sebastiano è per prima cosa il suo bel torso di soldato romano con una doppia vita (guardia imperiale di giorno, cristiano di notte). Aggiungi una posa languida, una colonna a cui legarlo; aggiungi qualche freccia – ma non troppe: è vero che Iacopo di Varazze parlava di un santo ridotto a porcospino (“ut quasi hericium videretur”), ma quello era il medioevo truculento, ai nuovi artisti interessa altro. Il torso, perlopiù. A un certo punto dipingere un bel Sebastiano doveva equivalere quasi a un coming out. Prendi il Sodoma, che in verità si chiamava Giovannantonio di Vercelli. Il soprannome non è un caso: Vasari perlomeno non lascia molto margine alle interpretazioni. Era oltre ciò uomo allegro, licenzioso, e teneva altrui in piacere e spasso, con vivere poco onestamente; nel che fare, però che aveva sempre attorno fanciulli e giovani sbarbati, i quali amava fuor di modo, si acquistò il sopranome di Soddoma, del quale, non che si prendesse noia o sdegno, se ne gloriava, facendo sopra esso stanze e capitoli e cantandogli in sul liuto assai commodamente. (continua…)


San Sebastiano, di Giovanni Antonio da Vercelli detto il Sodoma. E qualcuno là dietro sta molestando un cavallo. Sodoma vive perlopiù a Siena, dove le sue stravaganze sono più tollerate che altrove, in una casa piena di animali (“tassi, scoiattoli, bertucce, gatti mammoni, asini nani, cavalli barbari da correre palii, cavallini piccoli dell’Elba, ghiandaie, galline nane, tortole indiane”), e un corvo canterino che gli fa da segreteria telefonica. I benedettini di Monte Oliveto lo chiamano mattaccio, lui si vendica infilando un gruppo di donne nude nelle storie di San Benedetto, poi pur di farsi pagare le riveste. L’impressione è che un gay abbastanza estroso nel Cinquecento potesse anche cavarsela, purché dipingesse bene a prezzi vantaggiosi, ed evitasse certe città meno aperte di altre: Firenze, per esempio, dove già Leonardo da Vinci aveva rischiato parecchio, e dove allo stesso Sodoma capitò un incidente spiacevole, quando un suo cavallo vinse un palio. Onde, avendo i fanciulli a gridare come si costuma dietro al palio et alle trombe il nome o cognome del padrone del cavallo che ha vinto, fu dimandato Giovan Antonio che nome si aveva gridare, et avendo egli risposto Soddoma, Soddoma, i fanciulli così gridavano. Ma avendo udito così sporco nome certi vecchi da bene, cominciarono a farne rumore et a dire: “Che porca cosa, che ribalderia è questa, che si gridi per la nostra città così vituperoso nome?”. Di maniera, che mancò poco, levandosi il rumore, che non fu dai fanciulli e dalla plebe lapidato il povero Soddoma, et il cavallo e la bertuccia che avea in groppa con esso lui. Il Perugino, figurati, di dipingere le frecce non aveva cuore. Povera bertuccia. Ma insomma nei pittori della generazione del Sodoma l’omoerotismo di Sebastiano è già ben più che latente: la cosa diventa più sottile nei secoli successivi e torna a scatenarsi nell’Ottocento. D’Annunzio ha il ‘merito’, consentitemi le virgolette, di mettere la storia nero su bianco: da lui in poi il dado è tratto, anzi, la freccia è scoccata: i gay trovano il loro Santo protettore e non lo molleranno più. Lungo il Novecento il nome viene utilizzato da scrittori di area anglosassone per creare intorno a certi personaggi almeno un dubbio, un alone di sessualità ambigua: è il Sebastian di Ritorno a Brideshead (Evelyn Waugh) o quello di Improvvisamente l’estate scorsa (Tennessee Williams). A dire il vero un giovane Sebastian oggetto di attenzioni omoaffettive c’era già nella Dodicesima notte di Shakespeare… Infine, quel che D’Annunzio poteva solo suggerire nel suo Martyre, ci pensa Derek Jarman a esplicitarlo nel suo film del 1976: pensavate che Diocleziano ce l’avesse con Sebastiano per via del Cristianesimo? ma no, macché, la verità è che prima della conversione erano amanti, insomma, più che un martirio un dramma della gelosia. A me personalmente questo ridurre qualsiasi conflitto a questione passionale irrita un po’, però probabilmente non sono il target di un film di legionari che si baciano e parlano latino con un accento inglese. Da Jarman in poi l’associazione tra Sebastiano e gay è diventata così comune che alcuni hanno iniziato a costruire teorie per giustificarla un po’ più seriamente: le frecce che feriscono ma non uccidono come simbolo della penetrazione? Mah.
Senz’altro le frecce continuano a evocare un sostrato pagano: le guardiamo e pensiamo a Cupido, non c’è niente da fare. Una bella ironia per un santo che si dedicava con zelo a distruggere gli idoli pagani: alla fine ha perso, quando contempliamo il suo glorioso martirio ci viene ancora in mente l’antico Eros. L’associazione funzionava ancora nel medioevo, stilnovisti e petrarchisti sono lì per mostrarcelo. E tuttavia ce n’è un’altra fondamentale, che da Omero arriva fino al secolo scorso e poi svapora un po’: la freccia come allegoria del contagio, dell’epidemia. Un umanità che ignorava l’invisibile, che non conosceva l’esistenza dell’infinitamente piccolo, del batterio, del virus, di fronte al mistero del contagio ricorreva all’immagine della saetta, che un attimo è qua e il momento successivo è là. Già nel primo canto dell’Iliade, se gli Achei muoiono a frotte è perché hanno fatto arrabbiare Apollo Arciere. St. Sebastian, Osthorst Niels, 2005 Nella Passio Sancti Sebastiani le frecce non sono allegoriche o metaforiche, sono frecce e basta: e tuttavia saranno sufficienti a rendere Sebastiano il santo da invocare contro i bubboni della peste, almeno finché a Trecento inoltrato non arriverà San Rocco a dargli una mano. I secoli passano, ma le epidemie si rinnovano, finché a fine Novecento Sebastiano si ritrova in piena emergenza AIDS: vedi come tutto si tiene? È anche patrono degli arcieri, dei volontari delle pubbliche assistenze e dei vigili urbani, il che può creare un problema di conflitto di interessi nel caso non raro di un vigile che ferma un trans.