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 2019  gennaio 23 Mercoledì calendario

Intervista a Jürgen Habermas

Professor Habermas, i suoi lavori accordano un’importanza considerevole ai classici (Kant, Hegel, Marx, ma anche Durkheim, Weber, Adorno, Mead…) e alla storia della filosofia, approccio che non è più così comune tra i filosofi contemporanei.
«Hans-Georg Gadamer ha spiegato l’attributo “classico”, che utilizziamo anche per quei pensatori che hanno istituito una tradizione nella storia della filosofia: grazie alle loro opere, questi filosofi sono, tanto per le generazioni successive quanto per noi, rimasti contemporanei. Per questo non solo noi godiamo del privilegio di poter sfruttare in qualche misura in modo sistematico il contenuto sostanziale delle intuizioni innovatrici contenute nei loro scritti – andando al di là dell’interpretazione che si può dare dal punto di vista dello storico – ma abbiamo anche il diritto di comportarci così.
Abbiamo sempre letto Platone come un analista dei concetti: è stato il primo a sviluppare un concetto dei concetti e ha individuato nell’analisi concettuale la strada maestra della filosofia. Un esempio più vicino a noi è quello di Kant che, con la nozione di “autonomia”, ha introdotto un concetto completamente nuovo di libertà della volontà».
Sebbene lei si sia spiegato più volte su questo punto, vorremmo ritornare sull’importanza crescente che lei ha attribuito al diritto nella sua riflessione critica sulla società.
«Dall’inizio, da Storia e critica dell’opinione pubblica, mi sono interessato alle tensioni che esistono fra lo Stato costituzionale democratico e il capitalismo e alla contraddizione tra i princìpi in base a cui entrambi rispettivamente funzionano. Questo spiega anche l’interesse che ho maturato per la filosofia del diritto di Hegel, per la storia del diritto naturale e per il confronto tra le due rivoluzioni costituzionali del XVIII secolo».
Come concepisce oggi i rapporti fra diritto e politica, e, di conseguenza, tra filosofia del diritto e filosofia politica?
«Non vedo nessuna alternativa al corpo di princìpi dello Stato sociale democraticamente costituito. Ma oggi le nostre istituzioni democratiche diventano sempre più una semplice facciata per adattare lo Stato nazionale agli imperativi del mercato mondiale. In una società mondiale sempre politicamente frammentata, ma altamente integrata sul piano economico, non disponiamo di organizzazioni che possono compensare questo divario e dunque combinare la capacità di azione democratica e di controllo democratico. Mancano oggi le premesse minime per la formazione di regimi politici più ampi e meglio disposti a cooperare, i quali sarebbero in grado di addomesticare i mercati finanziari non regolati su scala mondiale al fine di diminuire le plateali disuguaglianze sociali che esistono all’interno delle società nazionali, ma soprattutto tra gli Stati e i continenti».
Vorremo chiederle come la teoria critica può collocarsi rispetto agli studi postcoloniali.
Essa resta vittima di un etnocentrismo occidentale?
«Non c’è alcun dubbio che la teoria critica precedente così come il marxismo occidentale nel complesso siano stati più o meno ciechi a tal proposito. Avevo già preso parte alla discussione messa all’ordine del giorno dal decostruttivismo, la critica legittima del colonialismo barbaro e della sua grossolana visione eurocentrista del mondo. Cosa è necessario rivedere? Senza ombra di dubbio l’applicazione incredibilmente selettiva dei presunti criteri universali dell’Occidente. Ma bisogna rivedere anche i criteri dell’universalismo occidentale propri della ragione?
Per esempio, concetti come quelli di diritti dell’uomo e di evoluzione sociale? Non sono domande semplici a cui rispondere».
La situazione attuale e il futuro dell’Unione europea sono temi caldi che la preoccupano molto. Quella migratoria è una delle questioni sociali e politiche cruciali a livello europeo. Da un lato, questa situazione rafforza le tensioni sociali, alimentando movimenti di estrema destra nazionalista, dall’altro si ha l’impressione che la tendenza a chiudere le frontiere dell’Ue metta i paesi membri in contraddizione con i princìpi universali e umanisti della Carta europea dei diritti fondamentali (dignità, libertà, uguaglianza, solidarietà).
«Sì, trovo vergognoso il carattere glaciale delle recenti decisioni in materia di politica del diritto d’asilo, considerato il fatto storico per cui i flussi migratori provenienti dal Sud e dal vicino Oriente sono anche la conseguenza delle nostre stesse colpe, quelle di una decolonizzazione fallita. Possiamo ancora guardarci allo specchio senza vergognarci per le tragedie che accadono nel Mediterraneo e che noi lasciamo più o meno accadere in assenza della volontà di creare una cooperazione? Ben inteso, aprire semplicemente le porte a tutti i rifugiati non ci è possibile, ma, in mancanza di una politica d’asilo comune a tutti gli Stati europei, la quale fino a ora ha fallito a causa della mancanza di volontà degli Stati di accordarsi su un criterio di ripartizione, sarebbe necessario che modificassimo radicalmente e insieme la nostra politica nei confronti dei paesi da cui provengono i rifugiati, prima di tutto per quanto riguarda la nostra politica economica».
La cacofonia che regna a proposito della gestione dell’accoglienza dei migranti e soprattutto la politica di sempre maggiori respingimenti alla frontiera non mette in pericolo la base democratica dell’Europa più profondamente di quanto si pensi? Non si deve temere una crisi di legittimità dell’Ue che genererebbe, in un effetto valanga, quella delle democrazie nazionali?
«Sono d’accordo con voi, con una piccola riserva. Da sempre l’Unione europea soffre di una mancanza di legittimità. Un deficit di legittimità che raggiunge il suo apice a causa di una politica delle crisi non solidale, che nel corso dell’ultimo decennio ha inciso profondamente sulla politica economica e sociale, soprattutto su quella degli Stati del Sud dell’Europa. Io considero la diseguaglianza sociale crescente all’interno degli Stati membri come la vera causa del populismo di destra. Ai miei occhi lo scandalo più grande sta nello sgomento e nel regresso delle élite politiche che governano debolmente davanti al compito che consiste nell’avere la volontà di contrastare l’attuale deriva “trumpista” in Europa. È difficile dire se abbiamo già raggiunto un punto di non ritorno.
Il problema, ai miei occhi, consiste nel mantenere ciecamente lo status quo, poiché, in questo caso, la disposizione dei governi a cooperare diminuirà sempre di più mentre il populismo prospererà sempre più e questo, come voi sottolineate, a spese della facciata, ad ogni modo sfregiata, dello Stato di diritto e della democrazia».