Corriere della Sera, 23 gennaio 2019
Quanti miti sulle origini degli Usa
I libri americani di storia soffrono da quasi tre decenni di una sindrome complicata da debellare: gli editori – che hanno sempre meno tempo, meno budget e spesso tristemente anche meno voglia di investire – premono sugli autori – sugli storici di professione come sui giornalisti – per trovare un «gancio» al quale collegarne il marketing. Benissimo se si tratta di libri in qualche modo «revisionisti» che offrono elementi nuovi per, magari, riabilitare un personaggio di cattiva fama o ridimensionarne uno di alto profilo (l’abbondante e spesso confusa pubblicistica su John F. Kennedy ne è uno degli esempi più preoccupanti). Di solito quando emerge un autore contrario a questa tendenza – per esempio Robert Caro con il suo monumentale, meticolosissimo lavoro su Lyndon Johnson, al quale si dedica da decenni – viene visto come una sorta di fenomeno.
Per questo è a volte salutare leggere il lavoro che sull’America fanno storici di altri Paesi: Tiziano Bonazzi, professore emerito dell’Università di Bologna, ha dalla sua parte una visione analitica chiarissima, e uno stile molto elegante che raramente si trova nei libri degli accademici. Era scritto benissimo il suo Abraham Lincoln. Un dramma americano pubblicato tre anni fa dal Mulino, che raccontava con precisione la sfuggente complessità del presidente che tenne insieme un Paese lacerato da una guerra civile da 600 mila morti. Ora con La rivoluzione americana (il Mulino, pagine 195, e 14), Bonazzi offre un’analisi fredda, e lontana sia dalle tentazioni più o meno patriottiche di tanti storici americani sia dal revisionismo alla Howard Zinn.
Pagina dopo pagina Bonazzi abbatte falsi miti sulla nascita degli Stati Uniti come se fossero bersagli al tirassegno. I tanto ammirati Padri Pellegrini? Il loro arrivo in Massachusetts «fu un episodio del tutto marginale dello scontro politico-religioso che portò alla guerra civile inglese scoppiata nel 1642». Quei puritani fuggivano sì dalla persecuzione anglicana, ma «continuavano a ritenersi assolutamente inglesi e il loro scopo era fondare Chiese pure secondo l’ortodossia del calvinismo congregazionalista». Non cercavano minimamente la libertà religiosa come la intendiamo oggi: cercavano «la libertà di seguire l’aspra via cristiana dettata da Calvino, fondata sulla predestinazione». I Padri Fondatori, eretti a feticcio, non solo dalla destra, in America? Il loro federalismo fu «un modo, senza dubbio estremamente innovativo, di trovare una soluzione sia al rapporto difficile fra governo centrale e Stati, sia al conflitto sociale che bolliva nel Paese», ma di fatto «non diede vita alla democrazia, perché le élite riuscirono a bloccare l’avanzata delle classi inferiori provocata dal loro forte ruolo politico e militare… fece sorgere uno Stato liberale di decisa impronta illuminista, fondato sul consenso e sui diritti dei cittadini, almeno di quelli bianchi e maschi. Fu l’inizio della nostra modernità politica, delle sue conquiste e contraddizioni».
Insomma Bonazzi ci spiega che la rivoluzione del 1776 è sì un evento centrale, ma nella modernizzazione della politica: «Il che pone agli europei, non si può non aggiungere, l’irrisolta questione di come superare la conventio ad excludendum che ancor oggi fa della storia del Vecchio Mondo un contenitore chiuso in sé, amputato della storia delle Americhe, sul quale nel corso del Novecento gli Stati Uniti sarebbero piombati come conquistatori, benvenuti dalla maggioranza, ma alieni».