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 2019  gennaio 23 Mercoledì calendario

L’ultimo processo di Poggiolini

Quando il 25 marzo prossimo il giudice monocratico del Tribunale di Napoli Antonio Palumbo leggerà la sentenza del processo per il sangue infetto usato in migliaia di trasfusioni per un ventennio a cavallo dei due secoli, pronuncerà tra i nomi degli imputati anche quello di Duilio Poggiolini. E se avrà deciso di accogliere la richiesta dell’accusa, subito dopo dirà: «Assolto». 
Se andrà così sarà la prima assoluzione per questo signore oggi 89enne e debitore con lo Stato italiano di sessanta milioni di euro, che restituisce con una rata mensile detratta dalla sua pensione. 
Alle udienze di Napoli non ha mai partecipato: troppo anziano, troppo malandato, piegato dal dolore per la scomparsa della moglie Pierr Di Maria, che fu sua complice quando incassava tangenti, e anche dal peso di vicende giudiziarie che certo non aveva messo in conto ai tempi in cui era l’uomo più potente della sanità italiana e dal suo ufficio di direttore generale del Servizio farmaceutico fissava i prezzi dei farmaci e favoriva le case che meglio lo pagavano. 
Se il processo Enimont – con la «madre di tutte le tangenti» e certi potenti della Prima Repubblica che in tribunale a Milano balbettavano di fronte alle domande di Antonio Di Pietro – è stato il simbolo di Mani Pulite, Duilio Poggiolini di quella stagione ha impersonato il male assoluto, l’uomo che speculava sulla salute degli italiani e che così si arricchiva a dismisura. 
La decisione 
L’accusa era omicidio 
ma si è ritenuto di non poter provare il nesso tra trasfusioni e morti 
Il suo debito è stato quantificato in quei 60 milioni che chiaramente non avrà il tempo di rendere, ma le sue ricchezze furono ben altre. Ancora nel 2013 nei caveau della Banca d’Italia furono ritrovati 26 milioni di euro riconducibili a lui, una cifra da far sbiadire anche i quindici miliardi di lire sequestrati anni prima da un conto corrente svizzero intestato alla moglie. Per non parlare dei lingotti d’oro, i gioielli, le opere d’arte, le monete antiche come i rubli dello zar Nicola II, e quelle straniere, i krugerrand sudafricani. E poi i soldi nel famoso pouf, le banconote nascoste come si faceva secoli fa con i risparmi, solo che nel suo caso erano gli spiccioli di un patrimonio infinito. 
Prima di invecchiare e finire ospite in una casa di riposo che i carabinieri sequestrarono perché era abusiva, Poggiolini provò anche a scrivere un libro. Si chiamava Nient’altro che la verità, e fu uno dei più grandi insuccessi editoriali che si ricordino. Del resto chi poteva credergli dopo tutto quello che si era scoperto su di lui? Non i lettori, e certo ancor meno i tribunali, che per le tangenti lo condannarono a quattro anni e quattro mesi scontati ai servizi sociali, fino all’indulto di cui beneficiò nel 2006. 
Restava il processo per il plasma infetto, venduto da case farmaceutiche che lo prelevavano, spesso all’estero, Stati Uniti e Paesi africani, da persone a rischio Aids o epatite. In tanti, soprattutto emofiliaci, furono contagiati, ma il processo di Napoli, per l’imputazione coatta disposta da un giudice dell’udienza preliminare, doveva dimostrare che gli imputati fossero responsabili di omicidio colposo plurimo. E il pm Lucio Giugliano ha ritenuto di non poter provare il nesso tra la diffusione di quelle sacche di sangue e il decesso di alcune persone sottoposte a trasfusione. Una determinazione assunta pur nella consapevolezza di provocare «dispiacere ai familiari delle vittime che hanno sofferto molto», ma nella certezza, condivisa con il procuratore aggiunto Vincenzo Piscitelli, che non vi fosse un’alternativa percorribile.