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 2019  gennaio 23 Mercoledì calendario

Intervista a Carlo Messina, ad di IntesaSanpaolo: «Adesso l’Italia non è a rischio»

«Il mio messaggio è stato “Comprate Italia!”». Carlo Messina ha appena lasciato il padiglione di Black Rock sulla passeggiata centrale di Davos, la sala dove il più grande fondo d’investimento della Terra ha convocato alcuni dei protagonisti della finanza e della politica globale per un giro di tavola informale sul futuro dell’economia. «Ho offerto il ritratto di un Paese dai fondamentali molto forti», riassume l’ad di IntesaSanPaolo, forti nonostante il rallentamento dell’economia. In buona sintesi, il banchiere romano pensa che «il reddito di cittadinanza sia un segnale nella direzione positiva contro le diseguaglianze», tuttavia «il nodo resta crescita e disoccupazione, che andrebbero affrontate con gli investimenti». Trova il debito «immenso, da tagliare eppure, sostenibile». Non vede pericoli imminenti per Carige e il sistema creditizio. E non gradisce il duello con la Francia esploso nelle ultime ore. «È sbagliato - assicura - alimentare un clima di contrasto con chi, per forza di cose, deve essere un nostro partner strategico».
Come ha descritto l’Italia agli altri «Davos Men»?
«Come Paese solido anche nel confronto con le principali economie del mondo. Essere una grande potenza esportatrice, ci espone alla frenata del ciclo mondiale. Se la Germania cresce meno, se la Cina e gli Stati Uniti si sfidano sui dazi, il rallentamento per l’Italia è inevitabile. Produrremo meno ricchezza nel 2019, certo. Ma resta la forza delle nostre piccole e medie imprese, che da sole valgono metà delle nostre esportazioni. La manifattura italiana ha compiuto un lavoro straordinario di riposizionamento dopo le ultime due crisi, con un export che è il più diversificato al mondo. A questo si aggiunge il risparmio degli italiani, pari a 10 mila miliardi: uno dei più elevati a livello globale».
Questo ci salva dal rischio di una recessione?
«Se entri in una fase di decelerazione globale che tocca proprio gli scambi internazionali, non è possibile non soffrirne gli effetti. Ma ciò non significa che il Paese sia in crisi».
Il quadro politico aiuta o no?
«Più che esprimere giudizi preferisco valutare le situazioni nel loro contesto. In tutti i grandi Paesi occidentali c’è una componente fortissima di diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza. In Italia negli ultimi anni le esigenze delle fasce più indebolite sono state trascurate da chi guidava il Paese. Un errore che ha inciso sul risultato elettorale. Si possono condividere o meno i contenuti, ma la manovra ha cercato di intervenire su queste diseguaglianze».
La conseguenza è stata il rialzo dello spread.
«Il problema è che abbiamo avuto una fase di comunicazione non corretta nei confronti della Commissione europea e degli investitori internazionali. Si poteva chiudere un accordo con la prima e portare dalla nostra parte i secondi in meno tempo. Si sarebbe evitato che lo spread andasse alle stelle».
Le pare troppo alto?
«Direi che è scorrelato dai fondamentali e costringe a pagare ancora il premio che si chiede agli outsider. Aspettano i risultati. La risposta potrà venire solo dai fatti concreti che il Paese saprà realizzare».
Cosa manca nella manovra?
«Gli investimenti, anzitutto. Non si cresce solo con le risorse messe a disposizione dei più deboli. Non basta per accelerare la crescita o riassorbire la disoccupazione e vincere il disagio. Rimettere in moto le opere pubbliche e le costruzioni è indispensabile, come accelerare i cantieri già programmati e che oggi vanno a rilento o sono fermi. Con 50 miliardi di investimenti pubblici, già stanziati, si potrebbero mobilitare altri 50 miliardi tra fondi europei e risorse private».
Il Fmi dice che siamo una possibile minaccia globale.
«Esagerano. È ragionevole la stima sulla riduzione della nostra crescita. Però considerare che l’Italia possa essere un grande problema per il mondo non lo trovo corretto. Del resto è accaduto spesso che il Fondo prendesse delle posizioni che poi non si sono del tutto rispecchiate nella realtà. Per inciso, è molto difficile che lo spread possa andare molto sopra i livelli attuali».
Che effetto le fa sentir parlare di nazionalizzazioni bancarie, come per Carige. O veder trattare Mps come un gioco di casa?
«Alcune volte può essere la migliore soluzione del problema, ma solo in via temporanea. Non dimentichiamo che la Royal Bank of Scotland è ancora nelle mani del governo britannico e nessuno grida allo scandalo. È un’opzione possibile se c’è un percorso di uscita. Per mettere le banche nelle condizioni di poter essere gestite in modo virtuoso e tornare presto sul mercato».
Ha temuto per Carige? Gli investitori internazionali considerano rischioso il settore bancario italiano?
«Credo che ci sia stata esasperazione dei dati reali. Abbiamo un problema, Carige, che vale lo 0,7-0,8 di quota di mercato del sistema dei depositi. Potrebbero essercene altri per un mezzo punto ulteriore. Può essere considerata una insidia per l’intero comparto?».
La Bce vi ha invitato a coprire tutti gli Npl, i crediti di difficile recupero. E anche qui è scoppiata la polemica.
«Ci sono stati alcuni errori nella rappresentazione del fenomeno. Nella dialettica fra banche e regolatore la vigilanza ha chiesto alle banche italiane interventi di bilancio prudenziali. Si tratta di un intervento che potrà impattare sul patrimonio e non sul conto economico. Un impatto modesto perché le banche italiane sono ben patrimonializzate».
Ma aiuta avere un governo che attacca frontalmente la Bce, cioè il suo interlocutore, definendola «anti-italiana»?
«Qui c’è l’influenza delle prossime elezioni. Ma quando si interagisce con le autorità europee l’approccio vincente è dimostrare con i fatti che alcune valutazioni sono errate. Nell’ambito di un rapporto corretto, urlare “siete cattivi!” non serve. In particolare riguardo il tema dei Npl, che è stato affrontato dalle banche italiane con una strategia corretta ed efficace».
Intanto l’Italia duella con la Francia per motivi anche non facilmente comprensibili. Non è una buona notizia, vero?
«Non abbiamo alcun interesse ad alimentare uno scontro nei confronti di Paesi che rappresentano dei naturali mercati di sbocco per le nostre esportazioni. Dovremmo sempre partire dalla mappa delle relazioni, sia geopolitica che commerciale. Spesso c’è polemica con la Germania, ma si dimentica che è un importante sbocco per i nostri prodotti. Nei confronti della Francia è giusto far presente, anche in maniera ferma, che non c’è sufficiente reciprocità nell’accesso ai rispettivi mercati».
Il Trattato franco-tedesco firmato in queste ore può creare un nucleo duro che lascia fuori l’Italia dal grande giro?
«Non credo. La dimensione della nostra economia e del nostro sistema imprenditoriale non rende concreto l’interesse a escluderci. Francia e Germania hanno bisogno di un Paese forte con cui fare massa critica per affrontare, a livello europeo, le sfide che pongono l’America e la Cina. Dobbiamo sempre tener presente l’altra mappa dell’Europa, quella delle interconnessioni, fatta di partecipazioni incrociate, collegamenti tra imprese e export. Porre l’Italia in un secondo livello di velocità europeo non è nel loro interesse. Si tratterebbe di un dispetto nei confronti di chi li attacca. Ma, nel lungo termine, non sarebbe un buon affare».