Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  gennaio 23 Mercoledì calendario

Quando Tamburi e Colaninno tentarono la scalata alla Fiat

La brumosa mattina del 4 gennaio 2016, ai piedi dell’irriverente statua di Maurizio Cattelan al centro di Piazza Affari, c’è un frenetico via vai di persone. Per essere solo le 8.30 di una gelida giornata semifestiva di gennaio, mentre mezza Italia si sta godendo le vacanze di Natale, il trambusto è anomalo. Palazzo Mezzanotte, edificio dell’epoca di Mussolini – da qui lo sberleffo dell’artista: un saluto fascista mutilato a mo’ di impudente e imperituro «vaffa» – e sede della Borsa, è addobbato con giganteschi drappi rossi su cui campeggia uno stemma giallo, al centro del quale si staglia un cavallino rampante. Sul piazzale fa bella mostra una fiammante SF16-H da corsa, affiancata da altre supercar. La Ferrari debutta in Borsa. È un evento storico per l’Italia. Il grosso della folla e della confusione è soprattutto per Matteo Renzi: il premier vuole celebrare di persona la quotazione a Piazza Affari della Rossa.
È la prima volta che Renzi, salutato come l’homo novus della politica italiana, giovane, progressista e riformista, mette piede a Palazzo Mezzanotte. Nemmeno per le quotazioni di Fincantieri e Poste, le grandi privatizzazioni del suo Governo, si era fatto vedere. A suonare la campanella d’inizio contrattazioni, sul palco, tutto lo Stato maggiore di «Casa Agnelli»: il compianto Sergio Marchionne, l’uomo del miracolo Fca; John Elkann, che per l’occasione indossa un piumino Moncler in edizione speciale, e il fratello Lapo; il manager della scuderia Maurizio Arrivabene, che pochi giorni fa ha detto addio al Cavallino, e pure Piero Ferrari, erede del fondatore Enzo. L’ex sala delle grida, dove un tempo gli agenti di Borsa si radunavano nelle corbeille, oggi trasformata in sala convegni, è gremita di ospiti e vip. Seduto tra le prime file c’è anche un compiaciuto Giovanni Tamburi, banchiere d’affari romano trapiantato a Milano, neoazionista di Ferrari, venuto a brindare alla quotazione. I tecnici spiegano che non è una vera e propria Ipo: la Rossa era già quotata in Borsa, faceva parte di Fca, ma è stata scorporata (nel gergo della finanza, spin-off ) in una società autonoma con una doppia quotazione, a Milano e a New York. E al momento della separazione, a tutti gli azionisti Fca sono state assegnate azioni Ferrari, che qualche mese prima erano state offerte al pubblico di Wall Street.
Tip, la Tamburi Investments Partners, aveva investito 100 milioni di euro in Fca e aveva ottenuto altrettante azioni Ferrari, che aveva pure rimpolpato con altri 20 milioni di dollari investiti a New York. Così Tamburi si era ritrovato azionista di peso della più grande industria del Paese e del marchio del lusso più celebre e desiderato al mondo. È l’ultima mutazione genetica in casa Tip: da merchant bank a investment bank, holding di investimenti finanziari puri.
La mossa è redditizia: la fiche su Fca e Ferrari frutterà a Tamburi una plusvalenza di circa 70 milioni. Ma la fortuna c’entra poco. Quel piccolo piede dentro la galassia Agnelli – un unicum, perché Tamburi non aveva mai investito in grandi aziende senza avere peso nella governance – ha una lunga storia e risale ai tempi della Telecom Italia di Roberto Colaninno. Nel 2001 il «Ragioniere» di Mantova e il finanziere Gnutti abbandonano la nave Telecom: l’ex monopolista è stato scalato dalla Pirelli di Tronchetti Provera e Colaninno passa la mano.
Il manager rampante ora è a spasso, ma con un bel gruzzolo di liquidità, e sta cercando altre operazioni del rango di Telecom. Per questo si vede spesso con Tamburi, che dai tempi della scalata alla Buitoni di idee è sempre una fucina. È l’inizio del 2002, e il banchiere gliela butta lì: «Perché non guardiamo la Fiat?». Colaninno conosce l’industria automobilistica: prima di salire alla ribalta con Omnitel e Telecom è stato per quindici anni il numero uno della Sogefi, la società di componentistica auto di Carlo De Benedetti; entrato nel 1981, quando l’azienda aveva poche centinaia di dipendenti e qualche decina di miliardi di lire, l’ha fatta diventare una multinazionale con 1.000 miliardi di fatturato e cinquemila dipendenti.
Un progetto su Fiat avrebbe dunque senso, tanto più che la casa automobilistica si sta sempre più avvitando. Gianni Agnelli è malato (morirà di lì a poco) e le banche sono terrorizzate: nel 2000 l’Avvocato ha strappato il mega accordo con la General Motors e la famosa put option (diritto a vendere) che farà ricco Marchionne, ma che però in quel momento fa paura. Colaninno e Tamburi pensano sia fattibile. Mettono in piedi una task force in via Pontaccio, la sede di Tip, e per mesi studiano il dossier Fiat: una cordata che ricapitalizzi la società e faccia un patto di sindacato con la famiglia Agnelli. Si arriva alla fine del 2001. Grazie ai buoni uffici di Ruggero Magnoni, i due ne parlano con l’ingegner Giorgio Garuzzo, ex uomo di casa Fiat; con Paolo Cantarella, il presidente di Corso Marconi, e con Pierleone Ottolenghi, all’epoca a capo della svizzera Ubs Warburg, per sondare una banca disposta a finanziare la «scalata». 
Il piano piace, e pure la sorte sembra congiurare a favore. Gianni, l’«ultimo re d’Italia», muore il 23 gennaio 2003 e migliaia di persone si mettono in fila davanti alla camera ardente allestita al Lingotto, come si confà a un sovrano. La Fiat, però, è un buco nero: il 2002 si è chiuso con 1,9 miliardi di perdite e una montagna di debiti: 22 miliardi. Senza la figura carismatica dell’Avvocato, il dissesto sembra imminente e il fratello Umberto, che per tutta la vita ha anelato al comando della Fiat ma quando finalmente lo ottiene sembra più un liquidatore, chiama al capezzale Giuseppe Morchio, ex manager della Pirelli. Insomma, le condizioni per un «salvataggio» con il piano Colaninno-Tamburi ci sono tutte. Ma l’inedita coppia non ha fatto i conti con la real casa di Torino. Prima si presentano dall’avvocato Franzo Grande Stevens, lo storico legale della famiglia; poi parlano con Gianluigi Gabetti, il manager che da sempre regge le sorti degli Agnelli. Ricevono una garbata, ma disinteressata, attenzione. Il progetto Colaninno-Tamburi viene messo in un cassetto e da Torino nessuno si farà più vivo.
La scalata alla Fiat rimarrà una chimera, ma Tamburi aveva ancora una volta avuto fiuto: dal 2003 a oggi Ifi, nel frattempo diventata Exor, ha guadagnato il 1.700% in Borsa. C’era del valore nella galassia Agnelli, e Tamburi l’aveva intuito. Tutto quel lavoro, però, non andrà perso, perché dieci anni dopo gli sarà molto d’aiuto per convincersi a investire nella ex Fiat, nel frattempo risanata dal fenomeno Marchionne e diventata Fca, dopo la scalata alla Chrysler.