il Giornale, 23 gennaio 2019
Dagli Dei celesti alle galassie, così è cambiato il cosmo
Qual è l’immagine che l’uomo ha del suo ambiente? Come si è evoluta tale immagine in funzione di spazio e tempo? La visione scientifica odierna del cosmo ha qualcosa in comune coi miti del passato? Stiamo convergendo verso una rappresentazione originale, o non ci siamo troppo discostati dalle visioni mitologiche? Queste e altre domande, si pone Pietro Oliva, astrofisico, esperto di simbolismo e storia delle religioni, con curriculum internazionale che spazia tra Heidelberg, Roma e Mosca, nel fresco di stampa Cosmogonie&cosmologie. Una breve storia delle rappresentazioni dal simbolo alla fisica (La Lepre Edizioni, pagine 152 Euro 28). Qui egli effettua una comparazione tra le diverse visioni del cosmo, partendo dalle più antiche, fino ad arrivare alla fisica, spiegazione più evoluta della realtà. L’obiettivo dichiarato è duplice: ottenere una rappresentazione snella e sinottica dei modi di concepire il Cosmo; suggerire il significato più opportuno tra i vari possibili (spesso coinciderà col significato etimologico originale) «di molte parole che oscillano tra l’uso in ambito familiare e in quello rigorosamente tecnico, perdendo di potenza ed essendo solitamente male utilizzate nel linguaggio comune».
Visto che, a parlar male si finisce sempre col pensare peggio, Oliva pone grande attenzione all’uso e alla comprensione delle parole.
A partire dal titolo. Cosmogonia e Cosmologia sono due momenti diversi dell’evoluzione umana e ciò spiega anche l’etimologia. La prima deriva da kosmos (ordine) e gonè (generazione): è quindi racconto mitico sulle origini dell’Universo e in particolare della terra. La Cosmologia, invece, deriva da kosmos e logos (discorso) e descrive le strutture dell’universo dentro un ragionamento logico. Ad essa si arriva con la fisica ta phusikà (le cose naturali), scienza naturale per antonomasia, descrive i fenomeni qualitativamente e quantitativamente indipendenti dal particolare osservatore, cioè in forma oggettiva prescindendo da spazio e tempo.
Fine ultimo del mito cosmogonico – di cui il volume offre panoramica mondiale – non è la semplice descrizione dell’Universo visibile, ma fornire risposte plausibili riguardo al posto che l’essere umano occupa nella creazione. Il Mito, per sua stessa natura, discende dall’alto, è rivelato da un’Autorità. Esso istituisce la realtà, non la spiega. Proprio tale mancanza di spiegazioni è alla base delle paure ancestrali dell’uomo. Il mito scrive l’autore «è l’ultima piattaforma sull’orlo della voragine, affacciatosi alla quale l’uomo soffre vertiginose frustrazioni a causa della provvisorietà inspiegabile della propria condizione». Nella storia si presenta come antidoto all’horror vacui dell’esistente, sedativo del malessere dovuto al non senso dell’esistenza.
La fisica moderna, invece, è figlia di un processo dissacratorio e iconoclasta verso il mito e del desiderio umano di intuire il suo ambiente sostituendo la cosmogonia con la cosmologia. La Fisica è il superamento del Mito e assurge al ruolo di Branca dello scibile opposta e complementare alle materie umanistiche, le quali collocano l’uomo al centro della descrizione della realtà. A ta doxa, le opinioni aleatorie, contrappone l’epistéme, la salda verità scientifica, che parla la lingua della matematica e della logica, avvalendosi di ragionamenti. Con le sue descrizioni indipendenti dall’osservatore e dalle sue particolari modalità rappresentative, si propone come l’unico tipo di conoscenza universale, sempre criticabile, ma costantemente accessibile a ogni uomo che vorrà comprenderne i simboli. Alla cosmogonia, fondata sul Mito, si sostituisce così la cosmologia fondata sull’osservazione. Il testo attinge anche all’antropologia, alla filosofia, alle favole, alla storia delle religioni, regalandoci un affresco straordinario ricco di notevoli illustrazioni a colori.
Anche se i Greci hanno un ruolo fondamentale, prima nel sorgere del Mito, poi nel passaggio al Logos, il volume passa in rassegna pure le Cosmogonie Pre-Elleniche spingendosi nella Mezzaluna Fertile, in Antico Egitto, fino in Estremo Oriente. Sorprendentemente, nei linguaggi di genti lontanissime, si ritrovano suoni uguali per rappresentare paure simili.
Per esempio, l’autore fa il parallelo tra l’ellenico Pan e il demone maligno slavo Cort, figlio del dio Cernabog e della dea Marena o Marzena, ma più sovente Mara, divinità invernale legata a culti agrari, con punti di contatto con la romana Cerere.
Mara è anche il nome del demone che tentò Buddha per distrarlo dal raggiungimento del Risveglio e rappresenta la Morte, meglio, gli ostacoli della mente. Ancora, in inglese, mare sta per incubo (nightmare), Mahr in tedesco, morrigain (demone dei corpi) nell’antico irlandese, koxmar, in russo. Perfino in antico babilonese la parola tempesta suona «mar.ru», mentre il vento che soffia da Sud in akkadico è saru. E si continua a lungo, con un vago senso di vertigine... Nei miti cosmogonici di tutta la piana mesopotamica, a partire dai Sumeri, prima popolazione urbana civilizzata strettamente sedentaria mai apparsa sul nostro pianeta e a seguire coi Babilonesi, la Terra occupa il posto centrale ed è piatta, spesso cilindrica, circondata da acqua. Nel poema mesopotamico che tratta il mito della creazione, l’Enuma Elis (Quando nell’Alto), vengano citate, come primo essere agente nel caos dell’indifferenziato, le acque sotterranee. In definitiva, il mondo dei Sumeri scaturisce dalla miscellanea di acque sotterranee e superiori. In ciò consolidando miti già strutturati nel pensiero preistorico.
Riguardo la forma geometrica della Terra, essa è concepita come un enorme disco piatto che riposa su un’estesa riserva d’acqua. Il dio Apsu è l’acqua dolce, Tiamat, la salata. L’oltre tomba è una porzione della montagna mitica Kur, posta sotto questa riserva d’acqua, cosicché, per raggiungere il regno dei morti si deve attraversare il tenebroso fiume U.BUR.
Nell’aldilà, gli Anunna vigilano per impedire a chiunque, una volta entrato nel regno dei morti, di uscirne. Si deve arrivare a Copernico per il sistema eliocentrico dell’Universo. Anche se il più grande contributo dell’astronomo polacco è l’aver degradato la terra a ruolo di comune pianeta. Temendo il giudizio della Chiesa, Copernico dedica l’opera a Paolo III, e giustifica la lesa maestà del sistema tolemaico, affermando che si è trattato di un «mero esercizio matematico», utile a semplificare i conti del modello fisico di Tolomeo. Insomma: «Santità, abbiamo scherzato...».