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 2019  gennaio 23 Mercoledì calendario

«Dal chirurgo estetico come al supermarket». Intervista a Nicolò Scuderi

Un tempo i pazienti si presentavano nello studio del chirurgo plastico con la foto di un’attrice o un cantante e chiedevano il naso o la forma degli occhi uguali ai loro. Indipendentemente dal fatto che la loro forma del viso fosse molto, ma molto, diversa da quella dei divi e che, spesso, l’età non coincidesse. Il medico provava ad accontentarli.
Oggi, la scena è cambiata: i pazienti si presentano nello studio chiedendo direttamente il trattamento che vogliono, che sia di medicina o chirurgia estetica. «Come si fosse in un negozio dove si entra e si chiede. Come se il corpo non fosse il loro. Dal momento che, generalmente, c’è poco interesse nell’atto medico a cui si sottopongono. L’importante è che venga seguita, come chiedono, questa o quella tecnica. Che il seno venga aumentato di tot centimetri o che le labbra risultino visibilmente sporgenti rispetto al naso», racconta Nicolò Scuderi, catanese settantenne, ordinario di Chirurgia plastica a La Sapienza di Roma.
Scusi, che vuol dire? Le viene chiesto di fare una puntura con una certa sostanza piuttosto che un’altra e di seguire una tecnica di intervento?
«Molte volte è così, direi che capita sempre più spesso. Sta a noi, durante il colloquio, spiegare cosa è meglio secondo l’età, il tipo di pelle, la forma del viso o del corpo. Parlerei di autochirurgia diffusa. Dal medico come al supermarket».
E viene ascoltato?
«A dire il vero non è così facile convincere chi chiede di sistemare il suo viso in modo che venga bene nelle foto del cellulare da postare sui social. Il parere del medico non viene ritenuto affidabile. E si bussa altrove».
Quindi parliamo di giovani?
«No, no. Parlo di adulti ormai stregati dall’immagine che invii attraverso il cellulare».
Lo specchio è in disuso?
«Per molte persone, è diventato inaffidabile. L’importante è la percezione che una persona ha di sé, non quello che rimanda lo specchio».
Per questo si continuano a vedere labbra giganti?
«Quelle donne si piacciono così. Non fanno una valutazione oggettiva davanti allo specchio. Credono che più si fanno iniettare e più sono belle. Una battaglia persa».
Seno e naso sono ancora gli interventi più richiesti?
«Fino a 34-40 anni. Poi si cambia. E allora si lavora sulle palpebre pesanti, l’interno braccia e gambe, l’addome».
Da lei arrivano più signore o signori?
«Le signore battono i signori ma ormai gli uomini, pur più timidi e meno informati, sanno bene quello che vogliono. Guance più tese, occhi senza zampe di gallina, pancia priva di maniglie dell’amore».
Uomini di tutte le età?
«Giovani per naso e orecchie. Adulti per il resto. Anche ultrasettantenni».
Ultrasettantenni?
«Anche ultraottantenni. Nel passato ci stupivamo che le ragazzine di sedici anni volevano entrare in camera operatoria per rifarsi da capo a piedi. Oggi perché dovremmo sorprenderci nel vedere tanti anziani desiderosi di sistemare il viso o il corpo?».
Quali sono le richieste dei nonni?
«Dal rifacimento del seno al ridimensionamento, con laser o radiofrequenza, dei segni sul volto. Molto richiesto è lo schiarimento delle macchie. L’età non conta».
Il seno oltre i settanta?
«Certo, se le condizioni generali lo permettono si può fare. Tutto il corpo ne guadagna. Non credo sia il caso di colpevolizzare».
Altri trattamenti?
«Il botulino, per esempio».
La diffusione degli interventi e la guerra dei prezzi per gli interventi quali effetti hanno portato?
«I più drammatici li conosciamo, ce li rimanda la cronaca. Proprio perché passa ancora con difficoltà l’idea che si tratta di un atto medico anche se serve per correggere segni di invecchiamento o difetti. Quelli estetici li vediamo ogni volta che usciamo».
Per strada capita spesso di vedere tanti volti uguali. Quali sono le tecniche che portano a questa generale globalizzazione dei volti e delle espressioni?
«Incontriamo visi eccessivamente gonfi e tirati con una mimica ridotta al minimo. È chiaro che trattamenti così esagerati portano ad una orrenda unificazione dello sguardo, del sorriso e di tutto quello che il viso racconta».
Le persone non se ne accorgono?
«Chi è arrivato a questo evidentemente no. Consideriamo quel viso un modo per uniformarsi e non per distinguersi. Una volta la bellezza spiccava, oggi rischiamo di passare in rassegna una carrellata di facce fotocopia».
Ma è uno scenario terribile.
«Terribile o no è l’effetto di una medicina e chirurgia plastica non personalizzata. Non mirata a puntare sulle differenze ma solo sulle uguaglianze per non sentirsi esclusi. Da giovani e meno giovani».
Qual è il paziente ideale, dunque?
«Quello che si ama e non si detesta, quello che accetta le sue differenze e vuole solo correggere con mani leggere i segni o le eventuali piccole o grandi imperfezioni che danno fastidio al suo sguardo».
Professore, ci siamo dimenticati del lato B. Si lavora ancora molto per rimodellare e ridimensionare?
«Si interviene più su addome e gambe. Non è molto richiesto anche se sappiamo che, nell’armonia di un corpo, non è insignificante».
Hai mai detto una bugia ad una paziente per farla contenta?
«Mi sa di no. Sono gentile ma la mia storia di chirurgo plastico, parlo di braccia amputate, drammatiche ferite e maledette ustioni, mi ha sempre fatto essere molto schietto e pratico».