Giancarlo Dotto per il Corriere dello Sport, 22 gennaio 2019
DOTTO IN GLORIA DI “PIEDONE” MANFREDINI: "LUI È LA CAUSA DEL MIO ESSERE ROMANISTA. E CHISSÀ DI QUANTI ALTRI… PASSO DA COWBOY, DRIBBLAVA UOMINI E OMBRE. SEGNAVA SOLO QUASI TRIPLETTE. CERTA PESSIMA LETTERATURA DA BAR LO VORREBBE PASSARE ALLA STORIA COME “QUELLO CHE SE MAGNAVA I GOL A PORTA VUOTA”. E LUI, A FINE CARRIERA, IL BAR LO HA APERTO DAVVERO E LO HA CHIAMATO “PIEDONE” – VIDEO DI VITTORIO GASSMAN NE ‘I MOSTRI’ -
Coccodrillo scusami, la mia memoria è uno scolapasta. Sempre stata. Mai stata. Non lo voglio umiliare, il mio Pedro, scaldando una robetta da archivio alias wikipedia, arrangiando qualche aneddoto a mo’ di lassativo. Della foto che ne deforma il piede quando scende dall’aereo, lo sanno pure i sassi. Per non dire del gol a San Siro che slacciò via etere il primo: “Scusa Ameri…” (sarà vero? Fossi in me controllerei). Di lui non ricordo nulla, ma ricordo tutto, l’essenziale. Ricordo il mito, non la storia.
Il mio Pedro Waldemar Manfredini detto e più volte maledetto “Piedone”? E’ la Causa. Semplicemente. Lui è la causa del mio essere romanista. E chissà di quanti altri. Lui e l’Armando, il portiere di via Guido D’Arezzo, mutilato di guerra. Oggi sarebbe più correttamente un diversamente abile, allora era solo uno zoppo, ma più spesso uno sciancato. Epico il nostro viaggio verso l’Olimpico. Che allora era una spedizione nell’ignoto, oggi una passeggiata di salute. La mia prima volta. Lui che arranca spavaldo, disegnando con la gamba destra semicerchi da compasso ubriaco, io al suo fianco, in braghette corte, testa bassa che non si sa mai e il panino con la frittata nella sacca. “Domani ti porto allo stadio con me…”, mi fa il sabato circonfuso all’improvviso di luce eroica. Per me non era uno sciancato. Per me era Aiace.
Camminava eccentrico e odorava di formaggio rancido, se annuso l’aria ce l’ho ancora addosso, ma per me l’Armando era quello che mi stava tirando dentro qualcosa che, intuivo, sarebbe stata una gigantesca epilessia. Salì sull’autobus con un salto da tigre, come solo gli sciancati e i disperati, io dietro, appiccicato, chi lo mollava lo zoppo, e nessuno che gli regalò il suo posto a sedere. Non c’erano i posti per gli invalidi. All’epoca gli italiani erano ancora tutti un po’ invalidi, prima di scoprire che si scoppiava di salute e si poteva allargare la cinghia.
Era il 1960. Roma-Bari. Non sapevo ancora che il fiato potesse essere mozzato di netto. La mia prima volta. Mi affaccio. L’Olimpico pieno. Battezzato da quell’enormità fatta folla. Al centro del campo un’immane e anche un po’ spaventosa lupa di plastica e mammelle da allattarci una città intera. La Madonnina d’oro lassù a Monte Mario e lui, Piedone, in campo. Le prime apparizioni sacre. Insieme a Giacomino Losi, Lojacono, Guarnacci, Giuliano e tanti altri. Tre gol di Pedro Manfredini. Sono andato a scandagliare nell’ocra del tempo per essere certo di ricordare. Il primo, fa fuori in dribbling mezza difesa e chiude secco a fil di palo alla destra del portiere. Il secondo idem, caracolla, surclassa, ma questa volta all’angolino opposto. Il terzo un classico, la Piedonata da sballo, smarcato anche il portiere e palla appoggiata nella rete e nel vuoto. E sempre l’odore dell’Armando addosso. Come esultò lo zoppo? Maledizione, non ricordo.
Insomma, l’antologia calcistica del mondo Piedone racchiusa in novanta minuti. Che lui di testa nemmeno la sfiorava, come quasi tutti gli argentini che alla bella chioma imbrillantinata, Angelillo su tutti, ci tenevano anche quando era scarsa (come nel caso di Pedro). Non solo in questo, l’opposto dell’altro amato bomber romanista, Roberto Pruzzo. Che era un magnifico, capocciuto stallone d’area, mentre Pedrito caracollava, divagava, zigzagava, un po’ Zorro un po’ Calamity Jane, passo da cow boy, dribblava uomini e ombre, e la porta spesso ma non sempre la vedeva perché il pallone ubriacava lui prima degli avversari e ci arrivava ciuco al dunque. A differenza di Pedrito el Drito, lo sceriffo che amava la vita tranquilla e le linee rette, Pedrito Waldemar cercava sempre il rischio, traiettorie sghembe, aveva la musica nelle gambe e quella musica era jazz. Ondulava, fintava, arrestava, a destra e poi a sinistra, era allo stesso tempo il serpente, l’incantatore e colui che si faceva incantare. Rapido e tecnico. Il mio Pedro in campo era come il mio Armando nella sua portineria e nei marciapiedi del mondo, impervi come l’Himalaya: si andava a bersaglio, non sempre, scegliendo curve oniriche, percorsi devianti e mai strade maestre.
Da Volk e Amadei a Dzeko, passando per Batistuta, la Roma ne ha avute di storie bomberecce, ma i due, Manfredini e Pruzzo, rappresentano nell’arco i due opposti. E, se devo pensare a una reincarnazione in giallorosso, Voeller e Caniggia sono il verso e la movenza più vicine a Manfredini e Alcides Ghiggia. E, se devo tenermi alla stretta fisiognomica, il teschio romanista più manfrediniano è quello di Walter Sabatini, ancora più estremo da giocatore nell’onanismo della palla al piede.
Pedro segnava solo quasi triplette. Era fatto così. Così erano fatti i suoi orgasmi e quelli dei suoi tifosi che lo amavano davvero. Certa pessima letteratura da bar lo vorrebbe passare alla storia come “quello che se magnava i gol a porta vuota”. Tant’è che, quando Dzeko gli capita di farlo, quelli con la prostata ingrossata, dicono: “Sembra Manfredini”. Ma questa è solo la crudeltà dell’ottusità, che vorrebbe degradare le grandi storie in barzellette, più sostenibili per i loro encefali. Pedro Manfredini è stato un grande centravanti e lui, a fine carriera, il bar lo ha aperto davvero e lo ha chiamato “Piedone”, sicché a raccontarlo, Manfredini, tra un cappuccino e un caffè corretto, fosse lui stesso.
Lo incontrai una volta nel suo bar di piazza Clodio a Roma. Era tornato dall’Argentina. Un po’ nostalgia canaglia, un po’ non se la passava bene. Amici tifosi lo aiutarono ad aprire il locale e lui si chiuse lì dentro, al bancone, come farebbe oggi un Icardi qualunque, Wanda alla cassa, a raccontare storie e servire bevande. Mi raccontò di quella volta a Napoli. 3 a 3. Indovinate chi segnò i 3 gol della Roma? Avete indovinato. Sul 3 a 1 il Napoli pareggiò, a dieci minuti dalla fine. “Sbagliai il gol del 4 a 3 a pochi minuti dalla fine. A fine partita, un dirigente della Roma andò dal presidente di allora Marini Dettina e gli disse che ero uno scandalo, che dovevano cacciarmi dalla Roma per quel gol sbagliato…”. Piedone me lo raccontò come fosse la storia di un altro, servendomi un caffè.