Corriere della Sera, 22 gennaio 2019
Paolo Cognetti e il suo cane Licky
Paolo Cognetti e Lucky, o forse meglio Lucky e Paolo, perché sono inseparabili. Una volta, dal nostro comune editore a Torino, li ho visti aggirarsi insieme come se fossero un’unica figura armoniosa dove l’animale umano e quello non umano diventano semplicemente vite che si accompagnano. Lucky è un po’ border collie, un po’ setter e un po’ chi lo sa, ibrido come tutte le creature interessanti. Corre tra le auto, più che tra i pascoli, e come Paolo vive una bipolare passione per la «natura-città». Per questo, «si intendono benissimo».
Paolo tu e Lucky siete inseparabili. Ma retorica a parte cosa significa accompagnarsi senza gerarchie a una vita animale?
«Significa essere due amici. Sono un po’ in difficoltà quando mi chiedono “è il tuo cane?”, oppure “sei tu il suo padrone?”, perché non sento affatto che Lucky sia mio né voglio essere il padrone di nessuno. Così mi avventuro in risposte complicate: “Ma no, lui sta con me, viviamo insieme, ci facciamo compagnia”. È bello stare in montagna con lui. La mattina mi sveglia all’alba e mi chiede di uscire, allora gli apro la porta e me ne torno a letto, più tardi lo sento bussare con la zampa, mi alzo, gli riapro, facciamo colazione. Non so esattamente cosa faccia in quell’ora o due in cui sta fuori. Mi hanno detto che va a trovare altri cani giù in paese e che fa il giro dei bar a vedere se c’è qualcosa da mangiare. Qualche volta ho pensato di mettergli una di quelle videocamere sulla testa per scoprire cos’altro combina e chi incontra, ma comunque sono contento che possa vivere la sua vita indipendente dalla mia. Quando andiamo a camminare io seguo il sentiero, lui parte per i boschi e ogni tanto torna a vedere dove sono, io so che non mi perderà mai, ha un olfatto finissimo e mi trova anche se mi nascondo. In città è un po’ diverso, non c’è la stessa libertà (né per i cani né per gli uomini). Spesso siamo obbligati a usare il guinzaglio e lui, che ormai ha sette anni, non ci è abituato e a questo punto della sua vita penso che non ci si abituerà mai. Facciamo lunghi giri per le periferie e sapendo quanto è felice in montagna mi rattrista un po’ vederlo fare la pipì sul marciapiede. Quando raccolgo la sua cacca mi guarda come a dire: ma sei scemo? Cosa fai, raccogli la cacca? Insomma abbiamo molta intimità. La gerarchia è reale e inevitabile in un solo momento, quando gli do da mangiare. Sono io che gli fornisco il cibo, non saprebbe procurarselo altrimenti e questo mi dà un grande potere su di lui, mi rende in effetti un po’ padrone. Se ci fosse un altro modo per nutrirlo sarei più contento».
Hai mai pensato che molta della semplicità della vita di montagna che racconti nei tuoi libri sia in fondo la vita animale?
«Sì, l’ho pensato. Stare con gli animali ti insegna moltissime cose importanti, soprattutto la frugalità e la semplicità. Lucky è felice se sta con me o con Federica, se mangia bene, se usciamo a camminare, se vediamo qualche amico. Fine. Di tutti i nostri oggetti non gli interessa nulla, né del telefono, della macchina, del televisore, né del lavoro, dei libri, dei vestiti. Non gli interessa nemmeno della casa. Però mi esprime un affetto incrollabile, che sembra rinnovarsi ogni giorno, e una felicità assoluta quando andiamo a camminare, soprattutto nella neve. Adora la neve. Io lo guardo e penso: ma vedi che cos’è la felicità? Vedi quali sono le cose che contano per essere felici? In questo Lucky è il mio maestro zen».
Sei diventato vegetariano, in questo senso Lucky è stato un animale guida per arrivare agli altri animali?
«Sì, è stato un po’ così. Io non avevo mai avuto un cane, non sono stato uno di quei bambini abituati agli animali fin da piccoli. Come ho raccontato in un libro, ho adottato Lucky più per forza che per scelta (un mio amico pastore in montagna l’aveva preso per lavorare con il bestiame, ma Lucky non aveva l’istinto e scappava sempre. È la sua anima setter che lo spinge a seguire le persone e andare a caccia nei boschi. Ho capito che a un certo punto stava rischiando la pelle per le sue intemperanze, così ho detto al mio amico: dallo a me, lo tengo io). Dopo un po’, stando con lui, ha cominciato a darmi fastidio il mangiar carne, l’idea che stavo uccidendo animali per mangiarmeli. In Nepal, nella valle dell’Annapurna, ho avuto una specie di illuminazione davanti a un cartello che diceva: “Da qui in poi, per rispetto verso la montagna, non si uccidono e non si mangiano animali”. Non avevo mai collegato il vegetarianesimo a una forma di rispetto per le vite della montagna. Quell’idea mi è piaciuta molto e da quel giorno sono diventato vegetariano. Mi chiedo spesso se rendere vegetariano anche Lucky. Da quello che so e che ho letto un cane ce la farebbe, è onnivoro come noi e può vivere di pasta, pane, uova, latticini, legumi, cereali, quello che mangia un essere umano vegetariano. Ma non me la sento, penso che se fosse libero di scegliere sceglierebbe la carne, e lo rispetto. Per adesso è così».
Un’ultima cosa, se Lucky fosse una montagna, che montagna sarebbe?
«Sai, ai montanari non è mai importato molto delle cime. Quando loro dicono “montagna” intendono un pascolo e una stalla. Dicono “vado in montagna” per dire “vado in alpeggio”, oppure “ho una montagna” per dire che possiedono un pezzetto di terra dove pascolare le mucche. Anche Lucky è così. La sua montagna è Estoul, dove abitiamo».