La Stampa, 22 gennaio 2019
L’importanza di sbagliare, da Einstein a Google. Intervista a Massimiano Bruno
Sbagliando raramente si impara. Anzi, l’abitudine spesso ci frega. Fanno più errori i ricci (cioè chi ha un modo univoco di vedere la cose) delle volpi (chi adatta le proprie idee in base ai risultati). Lo stesso concetto di errore è assai fluido: uno sbaglio di oggi può diventare un successo domani. Quello che è sicuro è che falliamo tutti e per un sacco di motivi diversi, troppi per essere classificati. A volte è una questione di prospettiva falsata, altre di sopravvalutare le proprie capacità. Ma, se tutti facciamo errori, alcuni sono più errori degli altri. Agli «epic fails», spaziando in ambiti diversi, si dedica il nuovo libro di Massimiano (no, non Massimiliano, evitare almeno questo errore) Bucchi «Sbagliare da Professionisti» (Rizzoli).
Professore, da dove nasce tanta passione per la tendenzaparticolarmente umana a fallire?
«È il risultato di un lavoro su un tema molto presente nelle nostre vite. Mi colpiva che la sociologia non se ne fosse mai occupata. A me interessa il ruolo dell’errore nella società, anche perché credo che non sia mai un fatto puramente individuale. Persino un rigore sbagliato come quello di Roberto Baggio ai Mondiali del ’94 è il risultato di un contesto organizzativo. A me premeva mettere in luce i modi in cui si guarda all’errore. Quello che evidenziano le 20 storie che ho raccolto è l’aspetto collettivo: si sbaglia sempre con gli altri e insieme con gli altri».
Si può imparare a diventare infallibili?
«No. Però si può migliorare. Il disastro di Tenerife, il più grande del trasporto aereo con quasi 600 morti, ha portato all’attuazione di una serie di misure di sicurezza per cui oggi si parla di un incidente ogni milione di voli. Però bisogna partire dall’ammissione. Invece l’altra lezione che si evince dai vari esempi è che l’errore è l’ultimo tabù rimasto nella nostra società e ogni volta proviamo a esorcizzarlo. E lo facciamo in due modi. O tendiamo a rimuoverlo, negandolo, giustificandolo, scaricandolo sugli altri. Oppure proviamo a nobilitarlo. Questa è una tendenza dell’ultimo decennio e che riguarda il mondo dell’innovazione e certi guru della Silicon Valley per i quali l’errore diventa parte della mitologia del successo. Così, dopo l’epic fail dei Google Glass, Sergej Brin disse: “Non abbiamo paura di fallire in modo spettacolare”».
Forse proprio le nuove tecnologie riusciranno, un giorno, ad azzerare la possibilità di prendere abbagli?
«In alcuni campi, certo, sarà limitata, ma la tecnologia introdurrà nuovi tipi di errori. Nel libro racconto di quando un segnale nel sistema di allarme, quindi uno sbaglio della tecnologia, sembrava indicare che l’Urss avesse iniziato un attacco contro gli Usa. Ma a un ufficiale venne in mente di chiedersi dove fosse Krusciov: era a New York all’Onu. Difficile, quindi, che l’Urss decidesse di iniziare la guerra. Ecco un tipico ragionamento da essere umano, non da Intelligenza Artificiale».
In quanti modi diversi si può fallire?
«Infiniti. Francesco Bacone (filosofo inglese del XVI secolo, ndr) aveva fatto una classificazione. Ci sono errori di tipo percettivo, altri a cui siamo più portati per le nostre caratteristiche personali, altri ancora a cui siamo esposti come società ed economia. Molto fanno anche le aspettative collettive che si autoalimentano. Il caso della start-up Theranos è emblematico: il mondo voleva così tanto una Steve Jobs al femminile che nessuno ha verificato che i test clinici low cost di Elizabeth Holmes funzionassero davvero».
E l’abitudine a sottostimare gli altri non aiuta: è così?
«Basta vedere il fallimento della Kodak e, in generale, delle aziende che tendono a dare per scontato che quello che funziona oggi funzionerà anche domani. Il produttore che rifiutò di mettere sotto contratto i Beatles, con il senno di poi, ci sembra un deficiente. Ma quanti di noi, assistendo al provino di quegli sconosciuti, avrebbero commesso lo stesso errore? L’autrice di Harry Potter, d’altra parte, è stata rifiutata 18 volte prima di trovare un editore. Insomma, non c’è un metodo scientifico per evitare di fallire, ma si possono adottare accorgimenti per contenere i danni».
Come dice il detto: sbagliando si impara?
«Se lo intendiamo nel senso che possiamo usare gli errori per capire meglio chi siamo, qualcosa di noi stessi e della società in cui viviamo, certamente sì».
Non sempre tutti gli errori però finiscono in tragedia, ma ci sono pure quelli fortunati: è vero?
«Il caso più noto di serendipità è quello di Pasteur, che nel 1879, per via di alcune provette lasciate aperte, trovò la cura per il colera dei polli. Ma lui, per primo, diceva che la fortuna favorisce gli spiriti preparati».
Nel libro sottolinea l’importanza di ammettere i propri errori. Quale è stato il suo più grande?
«Non saprei, perché sulle nostre azioni possiamo dare giudizi diversi a seconda del momento. Per esempio solo dopo Hiroshima Einstein giudicò che aver scritto una lettera sugli studi tedeschi sulla bomba atomica al presidente Roosevelt fu “il più grande errore della vita”. Ma nel 1939 gli era sembrata un’ottima idea. Gli errori sono soggetti a revisionismi continui. Del resto, nel 1972, quando al premier cinese Zhou Enlai fu chiesto cosa pensava della Rivoluzione francese rispose: “È troppo presto per giudicarla”. Peccato che - si scoprì anni dopo - non l’avesse mai detto. Pure questo un errore. Di traduzione».