il Giornale, 22 gennaio 2019
Racconti di un tosapecore
La macchinetta tosatrice ce l’ha tatuata dietro la spalla sinistra. Non lo abbandona mai. È un apparecchio vagamente inquietante a vederlo, un pettine nero sormontato da due rasoi azionati a motore. Acciaio scuro, l’immagine è quella di uno strumento dark, inadatto alla morbida lana bianca di un animale mansueto e paziente come la pecora. Paolo Antonietti detto Pipetz invece è un ragazzo solare, aperto, che non teme di sgobbare. E di sudore per fare il suo mestiere bisogna spremerne parecchio. Antonietti, 36 anni, è uno degli ultimi tosapecore d’Italia. Per nove mesi all’anno fa il pavimentista nella ditta di famiglia a Rossa, una località dell’alta Valsesia, in provincia di Vercelli. Ci si arriva per una strada stretta che risale un pendio scosceso coperto di verde. Nel comune vivono appena 182 persone. Ma per tre mesi, durante la primavera, Antonietti abbraccia uno dei mestieri più dimenticati e umili che siano rimasti.
Tosare una pecora è una faticaccia. Sei costretto a lavorare tutto il giorno in piedi, impugnando la tosatrice a motore, facendo in modo che l’animale non si ferisca e soprattutto non s’innervosisca. E poi, tosare non dà la soddisfazione di apprezzare i frutti del proprio lavoro. «La lana italiana non è di grande qualità, ormai neppure le nostre aziende di tessitura la comprano più, preferiscono rifornirsi all’estero», dice Antonietti. Biella, la capitale della filatura italiana di qualità, si trova a poco più di 60 chilometri, un’ora abbondante di automobile. Ma non è una faccenda di territorio. La tosatura è necessaria per il benessere delle pecore, per evitare dermatiti e parassiti.
Gli ovini in Italia ormai vengono allevati pressoché interamente per la carne e il latte, non c’è interesse per lo sfruttamento commerciale della lana. In pochi la vendono a qualche tessitore, molti pastori la smaltiscono, altri la raccolgono nei sacchi e la conservano nei garage. Ci sono ancora contadini che applicano l’insegnamento atavico delle campagne: mai gettare nulla. Antonietti è diventato tosapecore quasi per scherzo. «Sarà stato una quindicina di anni fa ricorda -, avevamo una decina di pecore e bisognava tosarle. Ho preso la macchinetta a filo e ho provato, come fosse un gioco. L’anno dopo sono andato a dare una mano a un amico che aveva un grosso gregge. E lì ho conosciuto un tizio che era venuto apposta dalla Francia. Un maestro». Parola importante, ma esistono ancora mestieri dove l’allievo può permettersi di adoperarla. «Mi prese in simpatia e anch’io mi appassionai. Voleva che andassi a scuola da lui perché in Francia ci sono corsi per apprendere il lavoro, ma non potevo. Quello che so l’ho imparato sul campo, nei fine settimana». Il francese veniva regolarmente in Italia per la stagione della tosatura, che comincia a fine marzo. Girava Piemonte, Liguria e Val d’Aosta. «Lavoro ce n’è parecchio, basta averne voglia», sorride Antonietti. P
Per tosare bene una pecora bisogna seguire una cinquantina di passaggi, esistono metodi specifici. Il più efficace è stato messo a punto in Nuova Zelanda, terra di greggi e di transumanza. Difficile? «A forza di passare la macchina la manualità arriva di suo», garantisce il tosatore valsesiano. Antonietti ha cominciato a lavorare sulla pedana: la pecora viene messa su assi di legno, mentre chi deve raderla è piegato in due, sospeso a un argano dal quale scende anche il filo elettrico che aziona la tosatrice. L’abilità sta nel tenere fermo l’animale con una mano mentre con l’altra si toglie la lana. Il bravo tosatore è quello che non lascia le striature del pettine. Ora con altri amici ha messo a punto un sistema diverso, «a corridoio» lo chiama Pipetz, fatto in modo che possano operare fino a otto tosatori nello stesso momento mentre le pecore arrivano in fila indiana. È l’ideale per le grandi greggi. «In una giornata di solito si tosano mille pecore, ma con l’aiuto di ragazzi particolarmente esperti siamo arrivati anche a 1.400», spiega. Il suo record personale è di 185 animali in 8 ore. La giornata di lavoro comincia alle 7. Alle 10 pausa per una bella colazione abbondante. Altra sosta di mezz’ora alle 14 per pranzo. La tosatrice si spegne alle 17,30. Alla sera si tira il fiato, a volte attorno alla tavola del proprietario del gregge, altre si apre qualche birra e si resta ad ammirare le stelle, come il pastore errante reso immortale da Giacomo Leopardi.
È un lavoro nomade. Nei tre mesi da tosatore, Antonietti cambia località molto spesso, a seconda di dove viene chiamato e del numero di pecore. Di solito copre Piemonte, Lombardia e Veneto, ma può spingersi anche verso Sud. Ha attrezzato un furgoncino con una branda che utilizza come un camper. Un carrello rimorchio trasporta pedane e macchinari, attrezzatura artigianale fabbricata nel tempo libero. «Il corridoio l’ha costruito un ragazzo che aveva lavorato in Norvegia racconta Antonietti -. Dopo le prime volte ha dovuto modificarlo leggermente perché le pecore del Nord Italia, soprattutto le bergamasche e le biellesi, sono più grosse».
La stagione del tosapecore è la primavera. Non è un lavoro con cui ci si mantiene, ma Antonietti assicura che si guadagna abbastanza: «Si viene pagati un tot per ogni capo, più ne tosi più prendi. Se la lana è un po’ più lunga si pattuisce qualcosa in aggiunta, tipo 20 o 25 centesimi a pecora. Non grandi cifre. Ma c’è da fare per tutti. Il lavoro arriva da solo, con il passaparola, e ci sono ancora quelli che vengono a fare le stagioni dall’estero, soprattutto dalla Slovacchia». E gli altri tosapecore italiani dove si trovano? «Io ne conosco una quindicina, quelli con cui lavoro più spesso sono a Riccione, Parma e Bergamo». Lontani anche loro dalla Valsesia. Ogni tanto ci si sente al telefono, quando uno è in zona chiama e si fa una mangiata. O si fanno progetti, come quello di partecipare a qualche gara di tosapecore o addirittura al campionato mondiale. Sì, c’è pure quello, l’anno scorso in Nuova Zelanda e la prossima edizione in Francia, dal 4 al 7 luglio, e c’è chi vorrebbe farne addirittura una disciplina olimpica. «Il problema storce il naso Antonietti è che per partecipare occorre aver seguito un corso e superato una selezione, che però si svolge mentre sono in giro per l’Italia. Quest’anno i mondiali non sono dall’altra parte del mondo, penso che andrò a vederli. Magari farò il tifo per qualche amico mio».