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 2019  gennaio 22 Martedì calendario

Intervista all’astrofisica Sandra Savaglio

Che cosa fa un astrofisico? «Una ricerca che riguarda l’intero universo, che è un laboratorio immenso: c’è l’imbarazzo della scelta. Servono strumenti complessi per elaborare interpretazioni complesse, che richiedono anni: è per questo che le collaborazioni fra scienziati sono sempre più grandi, ormai tutto il pianeta è coinvolto». Infatti Sandra Savaglio, professoressa di astrofisica all’università della Calabria (a Cosenza, la sua città, dove è nata nel 1967), lavora in giro per il mondo: mentre parla al telefono è a Monaco di Baviera, allo European Southern Observatory dove è fellow e senior research scientist, incarico che ricopre anche in America, alla Johns Hopkins University e allo Space Telescope Science Institute di Baltimora. Del resto negli Stati Uniti Sandra Savaglio è «fuggita» dopo la laurea a Cosenza, passando per il Max Planck Institut di Monaco di Baviera e una copertina di Time, nel 2004, in cui la sua fotografia era accompagnata dal titolo: How Europe lost its science stars, ovvero: «Come l’Europa ha perso le sue stelle della scienza». Però Sandra Savaglio l’ha riacciuffata, riportandola a casa sua, quattro anni fa. E così, sotto il cielo stellato della sua Calabria, ha scritto il suo primo libro, divulgativo ma non troppo: Tutto l’universo per chi ha poco spazio-tempo (Mondadori, pagg. 296, euro 20), un racconto dell’infinito in cui viviamo, visto con gli occhi della fisica, aggiornato alle ultime novità scientifiche, arricchito dalle domande, dai misteri, dalla meraviglia che spinge da millenni gli uomini a volgere lo sguardo verso l’alto. Qualcuno, come Sandra Savaglio, riesce anche a vedere oltre.
Perché è diventata astrofisica?
«Fin da bambina mi piaceva l’idea di fare la scienziata. Amavo la matematica e la scienza. Ho avuto dei bravi professori al liceo, e mio padre è stato da sempre interessato alla matematica. Avevo lo spirito di persona curiosa».
E poi?
«C’è stata una combinazione di fatti: ho letto un libro di Asimov; ho avuto dei prof importanti all’università, e l’opportunità di fare la tesi all’estero».
Dove è andata?
«In Cile, a lavorare coi telescopi. Una esperienza che ripeterò a febbraio. È un posto bellissimo, la notte il cielo è stupendo. Ci sono il deserto, le montagne, poco inquinamento luminoso... Il Cile è uno dei posti più spettacolari per osservare il cielo e poi, nell’emisfero australe, ci sono oggetti – come li chiamiamo noi – interessanti».
Che cosa c’è?
«Galassie vicine alla Via Lattea, molto più piccole: le vediamo bene, sembrano nuvole ma sono galassie, e girano intorno alla nostra».
Perché sono importanti?
«Lì avvengono fatti interessanti da osservare, così come nella Grande nube di Magellano, dove c’è una regione con stelle giganti, destinate a esplodere quando moriranno. Prima o poi ne parleremo... Già nell’87 c’è stata una esplosione stellare in questa regione, una supernova, che ha cambiato un po’ la comprensione dell’universo».
In quali altri posti il cielo si vede bene?
«In Italia, sicuramente in Calabria. Ci sono le montagne, poco inquinamento luminoso, pochi abitanti».
Lei è un’eccezione: è un cervello che è tornato a casa.
«Sì. Ero in Germania, al Max Planck, e stavo indagando per andare a Parigi, quando mi hanno proposto la cattedra di astrofisica qui: non ci ho pensato due volte».
Davvero?
«La scienza è globale, ormai la puoi fare quasi in tutti i posti. E tornare a casa, dove sono cresciuta e ho studiato, è stato bello, e lo è ancora. Certo, non è un paradiso sempre...».
I problemi quali sono?
«Per l’Italia, il problema più grande è la mancanza cronica di sostentamento per la ricerca scientifica. È un peccato. Tanti italiani desidererebbero restare qui a fare scienza, invece molti mollano, molti altri se ne vanno; molti rimangono, ma tra sacrifici enormi e ottenendo meno di quello che potrebbero ottenere. Con l’aggravante della burocrazia, che indebolisce tutto il sistema: non è necessaria, e fa danni».
Quando si è trasferita negli Usa?
«Nel ’98. Sono rimasta quasi sette anni e altri otto in Germania».
Tornare è stato uno choc?
«È un mondo che conoscevo, però da studente. Il problema interno più grave è il litigare continuo. Penso sia un problema culturale: la gente litiga sempre, anche se basterebbe un compromesso per andare avanti. E questo un po’ ci limita, all’esterno diventi meno forte: per esempio, se devi difendere un progetto scientifico e i tuoi colleghi non ti sostengono, appari debole».
Che cosa studia di preciso?
«All’inizio, a Cosenza, ho iniziato a fare ricerca sui gas che esistono fra le galassie: lo spazio fra galassie è quasi vuoto, ma questo quasi è così grande che hai il 90 per cento degli atomi dell’universo. Così ho studiato questo gas intergalattico».

E oggi?
«Ora studio le galassie, dove esplodono le stelle».
È una specie di «caccia»? Almeno così sembra, leggendo il suo libro.
«Le esplosioni stellari ci danno molte informazioni. Ma bisogna aspettare: le stelle esplodono senza dircelo... E lì comincia la caccia da parte degli scienziati».
Perché è importante osservarle?
«Sono eventi molto rari ma molto luminosi, anche se lontanissimi. Però tutto dura poco: e allora, per noi che le studiamo, parte la caccia, un susseguirsi di progetti per compiere osservazioni, in fretta. A volte le esplosioni durano pochi secondi, o pochi giorni; alcune un anno, o qualche settimana».
Un astrofisico vive attaccato al telescopio?
«Non più. Era così una volta, oggi i telescopi sono molto sofisticati, a volte viaggiano su satelliti: sono comandati a distanza e manovrati da personale tecnico, che fa le osservazioni per te, sulla base di indicazioni precise. Devi fare domanda prima, e solo il dieci per cento delle domande viene accettato. Poi ti mandano i dati, fai le tue analisi, ottieni i risultati e li pubblichi. Ma dietro c’è tantissimo lavoro, le persone coinvolte sono centinaia, anche solo per costruire gli strumenti».

Lavora anche a questo?
«Sì, ora in particolare sto cercando di mettere a punto la strumentazione necessaria per un telescopio in Sila, per studiare gli eventi che riguardano l’emissione di onde gravitazionali».
Fra le scoperte degli ultimi anni, quali sono le più importanti?
«Sicuramente la scoperta di una sorgente di onde gravitazionali. Tra febbraio e marzo, le macchine che misurano le onde saranno riaccese, e ci aspettiamo di rilevare diverse sorgenti: pensiamo che potrebbero arrivare segnali una volta al mese, o perfino di più».
Che cosa ci dicono queste sorgenti?
«Hanno a che vedere con quello che succede in condizioni estreme di densità di materia e di velocità. La relatività generale ha spiegato tante cose ma, in certi punti, si è fermata: per esempio, i buchi neri. Ma per gli uomini la porta va aperta...».
E studiando queste sorgenti si potrebbe aprire?
«Questi progetti vogliono capire come si comporta l’universo in condizioni estreme, come gli scontri fra buchi neri, condizioni che sono l’essenza dell’universo stesso. Sono quelle del Big Bang, della nascita dell’universo».
Gli astrofisici hanno sempre a che fare con il passato?
«Nell’universo quadridimensionale, il tempo è solo al passato. Non si può viaggiare nel futuro. Tutto quello che osserviamo appartiene al passato, è un pezzo del passato dell’universo».
Nel libro parla anche di «sassi assassini». C’è davvero il rischio che un meteorite distrugga la Terra?
«Sono eventi rari, eh... Hanno fatto danni in passato, e ne faranno, ma succede una volta ogni tanto. Il rischio c’è, ma è limitato. Mi preoccupo di più quando guido la macchina».

Un miliardo di pianeti potenzialmente abitabili solo nella nostra galassia, 235 miliardi di galassie (circa) nell’universo: sono numeri enormi, che fanno girare la testa.
«Spesso infatti parliamo di ordini di grandezza, se no ti perdi. Però sì, di questo ci occupiamo: se ti fanno girare la testa, fai altro. Noi misuriamo queste misure enormi».
Davvero si può parlare di «tutto» l’universo?
«Chiaramente no. Abbiamo capito tantissime cose, ma ci mancano i primissimi istanti: lì è successo di tutto... e qualcosa di importante, che non riusciamo ad afferrare. In quegli istanti c’è il segreto dell’esistenza dell’universo, ancora totalmente ignoto».
Scrive: «Noi astrofisici passiamo la maggior parte del nostro tempo a fare cose totalmente inutili per il benessere delle persone».
«Molti scienziati si sentono in colpa: sono pagati per divertirsi, qual è il senso? Ma noi siamo strumenti: il sapere è una necessità umana, come nutrirsi, riprodursi e dormire».
Lei si sente in colpa?
«Io no. Poi è vero che queste ricerche possono tornare utili, e ci sono infiniti esempi, ma non è per questo che le facciamo. Quando guardiamo le stelle che esplodono non lo facciamo perché può essere utile: lo facciamo per ambizione. Siamo esseri umani, e siamo ambiziosi. Che cosa fanno certi colleghi...».
Ce lo dica.
«Molti controllano il successo delle loro pubblicazioni, come i like su Facebook. E poi ci sono persone che litigano, tante. Il nostro mondo è piccolo, globale, ed è una rappresentazione delle miserie umane; pur se fatto di persone con la laurea, il dottorato, eccetera. Siamo un pochino umani».

Esistono altri pianeti abitabili?
«La questione è uno degli obiettivi fondamentali della ricerca astrofisica. Pensiamo ci siano altri pianeti come la Terra, il problema è trovarli, perché sono come granelli di polvere in luoghi lontani, pezzi di roccia fredda, che non brillano. Nessuno può dire che esistano, né il contrario: non abbiamo gli strumenti adatti per verificarlo. È la frontiera del futuro».

È vero che al centro della nostra galassia c’è un buco nero enorme?
«Sì, ma non è niente di speciale. È una condizione naturale, il seme di tutte le galassie. Ma: da dove sono venuti i buchi neri? Come si sono formati? Perché alcuni sono attivi, e altri no? Queste domande sono aperte».
Fra tutti i misteri, che cosa le piacerebbe fosse scoperto?
«La materia oscura, se esiste davvero, e di che cosa è fatta. E, se non c’è, che cosa la sostituisce. Poi, una cosa bellina sarebbe se esplodesse una stella nella nostra galassia: la vedrebbero tutti e potremmo studiarne i dettagli più intimi, perché abbiamo gli strumenti. Però è imprevedibile».
Proprio non si può prevedere?
«Si può prevedere qualcosa, su certi oggetti. Il fatto è che ogni giorno si scopre qualcosa».
Ha mai scoperto delle galassie?
«Sì, ho scoperto delle galassie. Ma ce ne sono tante
... Tutti scopriamo qualcosa. E vorremmo guardare più nel dettaglio, ma gli strumenti, e le persone, sono sempre meno delle galassie».
In che senso?
«Siamo diventati bulimici: abbiamo tantissimi dati, ma non il tempo per digerirli. Da una parte ci sono tante domande aperte e molti strumenti in più, dall’altra una montagna di dati, e dall’altra ancora non ci sono abbastanza persone per occuparsene. A volte dovremmo fermarci e chiederci: dove stiamo andando? Trovi migliaia di pianeti ma, se non hai le persone per studiarli, che fai?».
Che altro vorrebbe fosse scoperto?
«L’ultimo sogno sarebbe capire se ci sono altri pianeti come la Terra, dove c’è la vita. Sono le domande alla frontiera, dove si combatte la battaglia. E si spera si arriverà a delle risposte. Presto, magari...».
Quanto lavora al giorno?
«Lavoro il doppio. Perché non ci sono soldi per assumere altre persone. Non mi lamento. Il fatto è che in Italia la ricerca non è una priorità: è l’ultimo dei problemi. La cultura scientifica è considerata di serie B, da sempre. Se sai greco e latino sei colto, se conosci l’età dell’universo chi se ne importa».
Però è tornata. Non è un segnale bello?
«Penso di sì. Per me è positivo. Molti mi dicevano: ti pentirai. Ma la perfezione è noiosa, la natura umana è felice nella ricerca della perfezione».
È finita sulla copertina di Time. Una cosa pazzesca.
«Sì. È più facile vincere alla lotteria. Era venuto un fotografo serio, a Baltimora. Se fossi stata in Italia mi sarei divertita di più, ma ero in America, e la mia vita è andata avanti normalmente. Certo i miei genitori sono stati molto orgogliosi, mio padre aveva appeso la copertina in casa. In effetti è una cosa curiosa».