il Giornale, 22 gennaio 2019
La banca dati dei criminali
«Fosse per me, farei un database nel quale ci sarebbe ogni individuo maschile e se qualcuno fa qualcosa di male, si fa una verifica, poi si stabilisce al 100 per cento che corrisponde e lo si ammazza» «Sì, beh, ci sono decisamente molte leggi che non lo consentono» (da «Tre manifesti a Ebbing, Missouri»).
Un quadrilatero alle spalle del carcere di Rebibbia, a Roma. Qui, in grandi armadi a tenuta stagna, prende forma giorno dopo giorno il ritratto di una nazione.
È un ritratto più perfetto di qualunque fotografia, perché non riporta i tratti del volto ma la lunga, inconfondibile sequenza del Dna.
Non ci sarà il ritratto di tutti i maschi del paese, come avrebbe voluto Mildred, la madre disperata e rabbiosa di Tre manifesti a Ebbing. Ma ci saranno, maschi e femmine, i ritratti della nazione criminale. Di tutti coloro che, per un motivo o per l’altro, passano per le galere italiane. Tra di loro, la banca dati raccolta a Rebibbia aiuterà a cercare i colpevoli dei delitti irrisolti. La caccia, in realtà, è già cominciata, è ha già anche iniziato a dare i suoi frutti. Ad oggi, il Laboratorio ha ricostruito i profili genetici di 5.556 detenuti e ex detenuti, e li ha inviati alla banca dati della Polizia. Il database viene interrogato in continuazione dagli investigatori. Quarantadue casi sono stati già risolti: bingo! Anzi, match! Quando due profili coincidono perfettamente, c’è il match. «Matchano, diciamo noi», spiegano al Laboratorio. Dei quarantadue casi risolti, due sono delitti commessi all’estero: perché se i criminali scavallano le frontiere, anche le polizie di tutta Europa mettono in comune quel tesoro che sono i database. A gestire il Laboratorio è il Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria.
Ogni giorno altri profili entrano nel cervellone del Laboratorio. Più si allarga il database, più alte sono le possibilità di trovare al suo interno la soluzione di altri gialli. Alla base di tutto, che piaccia o no, c’è la recidiva: spesso e volentieri, chi commette un crimine ne ha già commesso un altro. Se si riuscisse a schedare l’intera popolazione criminale, qualunque traccia biologica lasciata da un pregiudicato su una scena del crimine avrebbe automaticamente un nome e un cognome. Non è il sogno di Mildred, ma quasi.
LA PRIVACY
E la privacy, e i diritti umani, eccetera, che fine fanno? «C’è una legge che consente il prelievo, l’analisi e la conservazione – spiega Grazia De Carli, sessant’anni, la dirigente del Dap che guida il Laboratorio – noi ci preoccupiamo di garantire che questo avvenga con efficienza, sicurezza e nel rispetto dei diritti degli imputati. Per questo i profili qua archiviati sono anonimi, identificati solo con un codice a barre». Se un poliziotto volesse incastrare a tutti i costi un sospetto, dal cervellone del Laboratorio non otterrebbe alcun aiuto. «Solo quando i due profili, quello rilevato sulla scena del crimine e quello anonimo custodito da noi, matchano perfettamente, allora gli investigatori ottengono il nome del titolare».
La gestazione del Laboratorio ha avuto un percorso molto italico: la legge è del 2009, per iniziare a prelevare i campioni ai detenuti si è dovuto aspettare il 2016, per analizzarli la fine del 2017. Ma adesso si è partiti, e non ci si fermerà più. Quando si è cominciato a fare i prelievi nelle carceri, si è iniziato dai detenuti che stavano per uscire: per l’ovvio motivo che era l’ultima occasione per carpir loro i codici genetici. Poi si è andati avanti con gli altri, e con quelli che man mano entrano in cella. Il prelievo è obbligatorio: il detenuto viene portato nella «stanza bianca», l’ambulatorio asettico creato in ogni carcere dove agenti in camice bianco gli fanno aprire la bocca. Se si ribella, lo si può costringere con la forza: «Ma fortunatamente – racconta il responsabile della stanza bianca di un carcere del nord – non accade quasi mai». Quindici secondi per guancia, con una specie di cotton fioc ipertecnologico brevettato dalla General Electric. Poi il campione parte per Roma, al Laboratorio dove 55 commissari biologi e informatici della Polizia penitenziaria lavorano alla analisi e alla catalogazione.
Non tutti i detenuti sono obbligati al prelievo. La legge del 2009 esenta gli accusati da alcuni reati, tra cui le imprese classiche dei colletti bianchi: il falso in bilancio, l’evasione fiscale, la bancarotta fraudolenta. Forse perché sui bilanci truccati di solito non resta traccia di sperma o di saliva? Chissà. Per quasi tutti gli altri detenuti, scatta il prelievo. Non serve essere stati condannati, basta essere dentro. Ci sono carceri come Bergamo dove ormai il 100 per cento degli ospiti è geneticamente schedato. L’obiettivo, un po’ alla volta, è arrivare allo stesso risultato in tutta Italia.
LE GARANZIE
Le possibilità investigative aperte dal censimento sono chiare, e altrettanto lo sono le preoccupazioni e gli interrogativi che questa operazione porta con sé: dalla attendibilità dei risultati alla genuinità della conservazione. Ma Grazia De Carli tranquillizza: «Noi agiamo sul campione salivare con sistemi che arrivano all’identificazione di venticinque alleli, quando ne bastano molti di meno per arrivare alla certezza. Il prelievo avviene in condizioni asettiche: singolarmente, detenuto per detenuto, da agenti con camici monouso e maschere per evitare di essere contaminati e contaminare. Vengono fatte due card che arrivano in laboratorio in plico sigillato con sistema di sicurezza per evitare contraffazioni».
A Roma, ogni campione viene analizzato quattro volte; inoltre per i detenuti maschi si procede anche alla tipizzazione del cromosoma Y. Così per arrivare alle 5.556 schede sono state necessarie oltre 24mila analisi. In lista d’attesa ci sono già 140mila tamponi raccolti nel corso del 2018 nelle carceri di tutta Italia. Sarà un lavoraccio, ma un po’ per volta si arriverà a dare un profilo genetico e un codice a barre a tutti quanti. «Per adesso – dice la De Carli – stiamo dando la priorità ai detenuti per terrorismo e per criminalità organizzata».
Se n’è fatta di strada, da quando nell’Ottocento Alphonse Bertillon iniziò a schedare i criminali prendendo quattordici misure del cranio e degli arti: «C’è solo una possibilità su 286 milioni che due individui abbiano queste misure identiche», sosteneva Bertillon. Oggi il Dna porta a una ogni 20 miliardi le possibilità di errore: il che, su un pianeta con 7,6 miliardi di abitanti, equivale alla certezza assoluta. Eppure il progresso tecnologico e le sicurezze positiviste degli scienziati non chiuderanno mai del tutto la bocca agli scettici: neanche nelle aule di giustizia, dove di battaglie sulla prova del Dna se ne continueranno a combattere a lungo. Soprattutto nei casi in cui il campione di partenza, quello trovato sulla scena del delitto, è costituito da poche, malconce cellule.
IL CONFRONTO
Alla qualità dei reperti, come si può immaginare, non c’è rimedio: a volte le scene del crimine sono fresche, incontaminate; a volte la Scientifica interviene a distanza di tempo, su corpi – o quel che ne resta – rimasti in balia delle intemperie; certo, il progresso scientifico aiuta oggi a estrapolare la sequenza genetica da campioni che una volta sarebbero stati inutilizzabili (come è accaduto per Lidia Macchi, la studentessa assassinata nel 1987 a Cittiglio); ma in altri casi, come le ossa ritrovate il 30 ottobre scorso a Roma in una sede della Nunziatura apostolica, il campione di partenza non è stato sufficiente a tipizzare il Dna.
L’importante è che in tutti i casi in cui dalla scena del crimine arrivano tracce utili possano essere confrontate con i profili presenti nel database in modo inattaccabile. Per questo dalla «stanza bianca» del carcere il campione parte per il Laboratorio in plico chiuso con sigillo antieffrazione, su ogni campione l’etichetta col codice dell’ufficio segnalatore, il codice dell’operatore, la data del prelievo. A Roma uno dei due campioni salivari viene chiuso in una nuova busta di sicurezza e conservato nel caso di contestazioni successive, l’altro viene tipizzato e inserito nel database. «Noi non sappiamo a chi si riferisce il campione – spiega Grazia De Carli – come non lo sanno alla banca dati. La compartimentazione garantisce l’indipendenza di valutazione». Decine di migliaia, poi centinaia di migliaia di profili si accumuleranno nei prossimi anni. La stragrande maggioranza di loro non verrà mai evocata in una inchiesta. Ma crimini vecchi e nuovi troveranno risposte che altrimenti non sarebbero mai arrivate: nei paesi dove la banca dati del Dna esiste già, la percentuale di delitti risolti è cresciuta tra il 40 e il 50 per cento. Un po’ di privacy in meno, molta giustizia in più.