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 2019  gennaio 22 Martedì calendario

Chi finanzia Di Battista?

Come diavolo fa a campare Alessandro-Kerouac-Di Battista? Terzomondista con la povertà degli altri, dioscuro guatemalteco di Di Maio, più evoluzione in chiave politica dell’Osvaldo Bevilacqua di “Sereno variabile” che degli scrittori on the road cui vorrebbe ispirarsi, ogni volta che Dibba compare in video ci lascia aggrappati a questo romantico quesito. Già. Come campa Alessandro Di Battista? Dopo la nascita del figlioletto Andrea -un infante che, in quanto a popolarità globale, se la batte con la prole di Fedez e Ferragni- Dibba ha rifiutato ogni candidatura politica; ha vergato libri ideologicamente possenti; s’è trasformato in inviato speciale per il Fatto Quotidiano attraverso la web tv del Loft per la quale ha fornito reportage impagabili. Anzi pagatissimi, solo che nessuno conosce la cifra esatta del borderò. Reportage, per inciso, girati in stile filmino Super8 anni ’70, senz’altro per scelta tecnica; e reportage un tantinello di parte, farciti di retorica e assolutamente privi del sostegno di numeri e dati.

TEORIE BIZZARRE
Per esempio, nel suo omerico viaggio tra il ventre della Silicon Valley e San Francisco, la foga nel descrivere i danni all’occupazione dell’industria e dell’intelligenza artificiale cozza con la realtà della disoccupazione al minimo negli Usa di Trump (3,9%). Per non dire della bizzarra teoria che lo porta a denunciare il baratto di generi alimentari che il popolo è costretto a subire in cambio di derrate di metanfetamine. E, ovviamente, la rivista dei ricchi, Forbes, su queste dichiarazioni esalate romanticamente a capocchia, gli ha fatto un mazzo così. Ma non è questo il punto. Il punto è che Dibba, il rivoluzionario che s’inerpica sul Machu picchu spingendo allegramente il passeggino e la moglie francese Sahra al seguito, l’uomo che percorre il mondo, dal Nicaragua al Messico alla Val di Fassa, pennellandolo d’impressionismo alla Victor Hugo; be’, sicuramente qualcosina guadagna dal quotidiano di Marco Travaglio. Ora alcuni mi dicono sia in procinto di partire -ancora pagato- per una nuova avventura nell’Africa delle colonizzazioni imperialiste e dei vergognosi flussi migratori. Altri parlano dell’India, sussurrandone l’ubiquità. Qualcosina Dibba guadagna, probabilmente anche dai libri Rizzoli. “A testa in su” e “Meglio liberi-Lettera a mio figlio sul coraggio di cambiare” (dove l’autore si staglia in copertina col computer sulle ginocchia, in posa montanellina) pare gli abbiano fruttato 50mila euro. Ma Dibba è in anno sabbatico parlamentare e ha girato più di un estenuato dipendente della Lonely Planet; e per quanto si muova per ostelli e ciuchi raminghi per la nuda terra, be’, insomma la spesa c’è. E non è che Dibba sia, diciamo, di famiglia facoltosa. Anzi, il padre preso giustamente «come modello d’onestà!» ha sofferto recentemente qualche problema economico; non ce lo vedo staccare assegni per il figlio globetrotter. A meno che Dibba non metta anche le spese del viaggione in carico al Fatto. In questo caso, scatterebbe, alto, l’applauso. Da grande voglio fare il Dibba anch’io, e tutto il resto.

CASACCA MEDIATICA
Di solito, la risposta alla legittima curiosità sul bilancio personale, Dibba la liquida con un «come campo con la mia famiglia sono cazzi miei»; la qual cosa giustifica il diritto di privacy, ma meno il “modello trasparenza” a cui il nostro divino militante affida la sua carriera politica. Il gemello Gigi Di Maio garantisce che «Alessandro vive del suo lavoro, è il primo attivista d’Italia», ma io non ho ancora capito quale sia lo stipendio del primo attivista d’Italia (e soprattutto in che casella della fatturazione elettronica debba essere inserito). Ciò detto, Dibba rimane la casacca mediatica che ogni movimento politico vorrebbe indossare. Aspetta un figlio e ne pubblicizza il parto al punto che il pargolo diventa più famoso di Shirley Temple negli anni della grande depressione. Va a Strasburgo col suo capo e nell’abitacolo dell’auto ti smonta, in un monologo irrefrenabile, il modello stesso dell’Unione Europea. Appare a “Che tempo che fa” da Fazio e spara dati immaginifici sulla Tav, su Bollywood che «si è comprata l’Ilva», sulla longa manus complottarda dei Benetton contro il mai domo ministro Toninelli. Ogni volta che parla, Dibba fornisce agli scontenti interni del Movimento, alla frangia sinistra e ortodossa dei grillini, un moto d’orgoglio; e la scintilla d’una rivoluzione pronta ad accendersi nel nome della decrescita felice, delle teorie ipolaburiste (lavorare sempre meno, lavorare tutti) di Jeremy Rifkin o di Domenico De Masi, del pueblo unido jamás será vencido. Anche se per noi ammirati osservatori più che i suoi modelli rimane la curiosità di conoscere il suo commercialista…