Il Sole 24 Ore, 22 gennaio 2019
La Cina frena e fa meno figli
Frena ai minimi dal 1990 l’economia cinese: nel 2018 la crescita del Pil si è attestata al 6,6%, stando alle statistiche ufficiali. Nel 2017 la crescita si era attestata al 6,8%. Con l’economia rallenta anche la demografia: l’anno scorso si è registrato il tasso di natalità più basso dal 1961, nonostante il superamento della politica del figlio unico. La popolazione è salita comunque a 1,395 miliardi di persone, grazie a 15,23 milioni di nuovi nati e all’allungamento dell’aspettativa di vita. La Cina sta invecchiando rapidamente e comincia già a fare i conti con i maggiori costi dei servizi sociali e con la contrazione della forza lavoro, scesa di 4,7 milioni di persone nel 2018.
Se la questione demografica è una delle grandi incognite che pesano sul futuro del Paese, le preoccupazioni del presente si concentrano sulla debolezza della domanda estera e interna, che ha imposto un dazio pesante sul quarto trimestre del 2018, conclusosi con una crescita del 6,4% su base annua. I consumi al dettaglio si confermano ai minimi da 18 anni (+8,2% a dicembre). Il dato diffuso ieri dall’Ufficio nazionale di statistica non ha avuto impatto rilevante sulle Borse, ma ha indebolito lo yuan, riportandolo attorno a quota 6,8 sul dollaro.
Le misure già adottate a luglio dal Governo non sembrano bastare a sostenere l’economia e Pechino si prepara a mettere in campo nuovi tagli delle tasse e un maggior impulso sugli investimenti: secondo alcuni analisti il mix potrebbe essere composto da 295 miliardi di dollari di minore pressione fiscale, ai quali si sommerebbe la possibilità, per i governi locali, di emettere 295 miliardi di dollari di obbligazioni finalizzate a finanziare infrastrutture.
In attesa che questi interventi facciano sentire i loro effetti, l’economia potrebbe continuare a raffreddarsi e l’Fmi si aspetta una crescita del 6,2% per il 2019 e il 2020. Pesano anche le tensioni commerciali con gli Stati Uniti, ancora da disinnescare: il 1° marzo scade la tregua che ha permesso di evitare una nuova escalation tra le due più grandi economie al mondo. Il clima di incertezza generato da un anno di schermaglie e minacce ha già peggiorato le aspettative e frenato gli investimenti (non solo in Cina).
Buona parte della frenata cinese è riconducibile alle scelte di politica economica orientate a correggere gli eccessi e le inefficienze del recente passato: per esempio, la produzione di acciaio è scesa ai minimi, con gli operatori impegnati a ridurre i volumi di un settore fortemente inquinante e che genera margini di profitto risicati. Un ridimensionamento che continuerà. Un altro esempio arriva dagli investimenti fissi, cresciuti al tasso più basso degli ultimi 22 anni (5,9%): la stretta sui finanziamenti, varata per contenere il debito, ha frenato la spesa dei governi locali, quella che desta maggiori preoccupazioni.
Secondo Vincenzo Petrone, direttore generale della Fondazione Italia-Cina, «il dato del Pil cinese nel 2018 è in linea con la riduzione attesa nel contesto del New Normal ed è nei parametri di crescita previsti per l’anno passato, che si attestavano intorno al 6,5%. A preoccupare deve essere altro, come il calo dei consumi domestici e delle importazioni. I grandi esportatori, come l’Italia, dovrebbero preoccuparsi del rischio che una conferma del rallentamento nel 2019 possa impattare negativamente sulla domanda globale, visto che negli ultimi anni la Cina ha concorso per oltre il 30% alla crescita dell’economia mondiale. E senza crescita non ci sono esportazioni».
In valori assoluti, il Pil cinese è cresciuto di 1.400 miliardi di dollari, più dell’intero prodotto interno lordo della Spagna.