La Stampa, 21 gennaio 2019
Se passa la delazione di Stato
Il «governo del cambiamento» costringe sempre più spesso, con le sue esternazioni e azioni, a interrogarsi su cosa stia accadendo alla democrazia italiana. Trattando del tema del reddito di cittadinanza, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Stefano Buffagni, del Movimento 5 Stelle, ha fatto sapere che, insieme alle attività dei comuni, dell’Inps etc., «anche le segnalazioni che spesso arrivano dal vicino di casa che è invidioso perché vede quello che sfrutta uno strumento di aiuto illegalmente» costituiranno uno degli strumenti che «una volta messi a sistema» contribuiranno a rendere possibile il controllo su chi ha ottenuto tale reddito. Da queste parole, pronunciate in un’intervista a Maria Latella, emerge dunque che la delazione farà parte del sistema di accertamenti.
Chi non è digiuno della storia del Novecento, chi ha letto libri, visto film, ascoltato racconti di genitori e nonni ha una reazione di immediata repulsione verso l’idea della delazione, perché sa che è stato un potente mezzo per creare paura e terrore nei regimi autoritari e totalitari. Nel suo romanzo «Vita e destino», ambientato nell’Unione Sovietica degli anni della guerra, Vassilij Grossman ne aveva colto la natura di strumento della «paura di Stato».
«In nome della morale la rivoluzione ci ha reso immorali, in nome del futuro ha giustificato gli odierni farisei, delatori e ipocriti, insegnandoci che un uomo può spingere degli innocenti nella fossa in nome della felicità del popolo tutto». Figli di una stagione che ha prodotto un nuovo moralismo, per il quale i reati economici e contro lo stato non sono un male, ma «il male», un male assoluto per combattere il quale tutto è lecito, in nome di una «onestà» che ha finito per rappresentare l’alfa e l’omega della politica, che di null’altro necessita, i nuovi governanti a 5 stelle si direbbe che trovino normale alimentare il sospetto tra cittadini, usare gli un contro gli altri, colpire e compromettere i legami sociali per realizzare il loro «cambiamento». Se le istituzioni non sono in grado di controllare il rispetto della legge, allora trasformiamo i cittadini in un esercito di spie.
Probabilmente Buffagni non è nemmeno consapevole dell’enormità da lui pronunciata. Ignora la storia, i suoi drammi e le sue tragedie. Ma esprime comunque una visione brutale, sregolata, senza limiti della politica e del fare politica. E in nome della «moralità», appunto, offre una soluzione «immorale», ovvero l’uso dei sentimenti più bassi dell’animo umano - come l’invidia tra vicini, quando il vicinato, come ci insegnano gli americani, dovrebbe costituire uno dei fondamenti dello sviluppo della società democratica - e la costruzione di una società del sospetto. Perché privo degli anticorpi della conoscenza e della consapevolezza. In un documentario di David Korn-Brzoza sulla Hitlerjugend (Jeunesses hitleriennes, 2017), un anziano intervistato che ne era stato zelante membro ricordava la madre, esasperata, che un giorno così lo apostrofò: «Ti rendi conto che ormai abbiamo paura di te?». È questo il suo modello, sottosegretario Buffagni? Ci rifletta.