la Repubblica, 21 gennaio 2019
L’arte di Gevorg Petrosya, fuggito su un Tir per diventare n. 1 del kickboxing
A volte, quando il più bravo kickboxer del mondo sale sul ring sulle note dell’inno di Mameli, chi conosce la sua storia si emoziona. E forse, dentro quella corazza, avverte un fremito pure lui, Gevorg Petrosyan che una volta era armeno e adesso è per meriti sportivi Giorgio l’italiano, The Doctor per i fans, 33 anni, 98 vittorie in 103 incontri, nella sua disciplina una leggenda che cammina e picchia, chi se ne intende racconta che è come se fosse Messi e Cristiano Ronaldo insieme. Settanta chili di muscoli, il naso storto da pugile ma anche piallato come un kickboxer, per via degli infernali sfregamenti contro tibie, omeri e femori degli avversari, perché qui valgono anche gomitate, calci e ginocchiate in faccia, mentre sotto la pelle potresti decodificare i geroglifici delle fratture alle ossa, a decine, che vengono gelosamente nascoste anche nelle interviste, per non dare vantaggi agli avversari nei prossimi incontri. E poi gli occhi, fenomenali, due scaglie di ossidiana più nere della barba nerissima, sembra un guerriero assiro, o forse Ulisse era un uomo così, invincibile, d’acciaio dentro e fuori, le articolazioni piegate ma non spezzate dalle battaglie vinte, a gambe e torso nudi verso il proprio destino e gli occhi come la notte, quando è senza luna.
Il guerriero viene da lontano e da secoli di sofferenze, da una terra e da un popolo tra i più bistrattati del mondo. Da ogni finestra d’Armenia alzi lo sguardo e vedi il picco bianco del Monte Ararat, dove si arenò l’Arca di Noè dopo 40 giorni e 40 notti. L’arca dei Petrosyan invece viaggiò per dieci giorni e dieci notti, Noè era al volante perché si trattava del rimorchio di un tir, Giorgio ci si nascose dentro partendo da Erevan insieme al padre e a un fratello. Fuggivano perché il reclutamento per la guerra del Nagorno-Karabakh, la terra su cui armeni e azeri si uccidono da decenni nel silenzio del mondo, funzionava così: un giorno bussavano a casa i soldati, prelevavano gli uomini e i ragazzi e li spedivano al fronte, a morire con un kalashnikov in mano senza sapere perché. Gevorg aveva 13 anni quando il tir li depositò in Italia, a Milano, poi ci fu Torino, poi Gorizia, dove trovarono requie e un permesso di soggiorno per lavorare (mai però l’asilo politico), e li raggiunse anche l’altro fratello Armen, ora al suo fianco. Era già posseduto dal demone della kickboxing, Gevorg, era il sogno da bambino, l’ha alimentato ogni giorno della vita italiana. Prima nel Muay Thai, poi nella Kickboxing, dove ha vinto il circuito mondiale per due volte, unico nella storia, e dove miete successi ancora oggi, che tutti vogliono batterlo e non ci riescono. Il prossimo match è il 16 febbraio nella riunione della Candy Arena di Monza, difende il titolo intercontinentale contro il giapponese Tamefusa. Se quella sera non dovrà giocare in campionato, accorrerà anche Mario Balotelli, che di Giorgio è amico fraterno, un giorno lo portarono a vedere un incontro e sbocciò la passione. Nel 2014 Gevorg è diventato Giorgio perché un suo omonimo, il presidente della Repubblica Napolitano, gli ha conferito la cittadinanza italiana per meriti sportivi: «Un giorno è arrivata a casa la sua lettera, con la bandiera tricolore. Dal 1999 non siamo più tornati in Armenia. Casa, lavoro e vita, quindi la patria, sono qua».
Armeno in fuga come milioni, Giorgio, anche tra le celebrità: armeno era Aznavour, di origine armena il famigerato padre di André Agassi (Aghassian all’anagrafe), lo è la mamma di Alain Prost, gli ex calciatori Djorkaeff e Boghossian, e non parliamo della tribù delle Kardashian. La Kickboxing invece sgorga dalle arti marziali e dal Giappone, è un fenomeno in Asia dove riempie arene da 25mila persone, ma anche in Italia la gente gremisce i palazzetti (mentre quelli della boxe sono disperatamente vuoti), si parla ormai di 200mila praticanti, Giorgio e Armen Petrosyan hanno una palestra a Milano in cui allevano talenti, e corre voce di insospettabili fanciulli che in casa hanno un vero ring per esercitarsi, la febbre sale.
«Perché sono il numero uno? Perché l’ho sognato e voluto fin da piccolo. Mai mollato. Solo sacrifici. La testa sempre lì. All’inizio molti combattimenti all’anno, ora tre o quattro. Ma ogni volta ci si prepara per tre mesi: due allenamenti al giorno, senza sgarrare nella dieta, nel bere, negli orari, come un soldato. Se hai fatto bene la preparazione, hai già vinto: conta quella, più dei 5 minuti sul ring. E non è violenza pura: il combattimento è durissimo, ma ci sono le regole». Tra regole e leggi hanno dovuto barcamenarsi per anni i Petrosyan, senza passaporto e in territorio straniero, e i primi tempi non furono semplici, logico, Giorgio e Armen ne avrebbero di aneddoti: «Da piccoli capitavano risse a scuola, con ragazzi più grandi: eravamo stranieri… ma anni dopo venivano a scusarsi, in palestra. E a Milano, se telefonavamo per cercare casa, ci dicevano che l’appartamento non era più disponibile, però se chiamava un amico italiano la casa c’era eccome. Ma non possiamo dire che l’Italia sia razzista, la paura del diverso c’è ovunque, pure in Africa… Capita però che ci sia la crisi economica, che gli stranieri siano senz’altro molti di più di trent’anni fa, e la gente, non sapendo con chi prendersela, dia la colpa ai non italiani: è un fenomeno naturale. Eppure ci si dovrebbe preoccupare di un’altra cosa: ormai sono più gli italiani che vanno a lavorare all’estero, degli stranieri che vengono in Italia a cercare fortuna».