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 2019  gennaio 21 Lunedì calendario

«La mia maratona gelata. Così ho corso a -52»

Dall’inferno rovente del deserto di Lut, in Iran, al paesaggio lunare della Siberia, è ancora una volta un cuore che batte a fare la differenza. Dal luogo più caldo del pianeta a quello più freddo, un anno e mezzo dopo. Paolo Venturini, 50 anni, atleta della Fiamme oro di Padova, incassa un nuovo record: 39 chilometri percorsi a -52,6 gradi. Quattro ore di corsa inghiottendo fucilate di gelo, con gli occhi contornati di ghiaccio e il sudore che cristallizza. C’è un uomo solo che corre su una strada ricoperta di neve e ghiaccio, da Tomtor a Oymyakon, in Jakutia. Sul petto una scritta: Polizia di Stato.
A luglio 2017 ha corso per 75 km nel deserto con 70 gradi. Ora 40 km a -52,6. Cosa la spinge verso queste imprese?
«Sono curioso e amo la natura. Corro fin da quando avevo 7 anni. Mi piace mettermi alla prova ma anche contribuire alla ricerca medico-scientifica».
In che modo?
«Sono stato accompagnato da due medici del dipartimento di Medicina dello sport dell’Università di Padova e sono stati coinvolti esperti in medicina del freddo dell’Università di Yakutsk».
Come la monitoravano?
«Mi hanno installato un termometro con tre sonde: sulla mani e sulla testa. Comunicavano i dati in tempo reale a un computer. Con questa sfida siamo riusciti a ottenere anche una certificazione scientifica su temperature e umidità. Dati per la scienza. È il valore aggiunto che cerco».
Ha corso a una temperatura polare per quasi 40 km. È stata dura?
«Il chilometraggio è relativo. È l’esposizione al freddo che crea problemi. Ho corso quasi 4 ore. Per chi vive da queste parti è impossibile rimanere fuori così tanto tempo».
Com’era vestito?
«Avevo tre paia di pantaloni e quattro magliette. Ho lavorato un anno per selezionare i materiali. Con tutto quel peso addosso, circa 10 chili, la falcata non è più la stessa. La muscolatura si indurisce per via del freddo e tutti questi strati di abbigliamento non aiutano».
E ai piedi?
«Scarpe da running con chiodi in carburo di tungsteno. Lì la neve è marmo. Poi c’è un copertura in goretex per coibentare la scarpa, un calzino termico normale e un calzino riscaldato elettricamente con due batterie al litio, così si riusciva a mantenere un tepore quantificabile in 15 gradi. Con quella temperatura esterna i piedi sono una delle parti più delicate».
La faccia era protetta?
«Ho indossato una maschera: ogni volta che respiri espelli vapore acqueo che poi si ghiaccia e diventa un tappo. Avevo provato a mettere occhiali costruiti appositamente ma si ghiacciavano anche quelli. Quindi non avevo protezioni agli occhi. Le lacrime si cristallizzavano creando croste di ghiaccio, ci vedevo a malapena. Ora i miei occhi sono di un colore simile al giallo, con pochissima circolazione».
Altri guai fisici a fine corsa?
«I medici hanno riscontrato una infiammazione dei bronchi e un principio di assideramento alveolare».
Terminata la prova, come ha recuperato la temperatura?
«Ho tolto la tuta e i relativi strati di sudore ghiacciato. Sono rimasto nudo, avvolto nelle coperte di lana. Solo dopo quattro ore ho potuto fare una doccia calda».
Ha seguito una dieta?
«Quella classica del maratoneta: pasta, parmigiano, proteine. Il consumo energetico è altissimo, perché oltre alla corsa il corpo lotta contro il freddo. Durante la corsa ho bevuto sali minerali e un gel a base di glucosio per incrementare l’energia».
A cosa pensa durante queste imprese? Cosa l’aiuta ad andare avanti?
«Non penso a niente. Ascolto il mio cuore e ogni altra parte del corpo. Devo avere tutto sotto controllo».
Corre sempre da solo?
«No. Qualche anno fa con il questore Savina (ora vicecapo della Polizia) abbiamo inventato la Corri X Padova: un allenamento a cui partecipano 2 mila persone, nei quartieri difficili, con volanti al seguito per garantire la circolazione degli atleti. L’abbiamo replicata a Brescia, Firenze e Torino. Ora vorremmo farla a Roma. È un modo per esserci, per fare sicurezza».