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 2019  gennaio 21 Lunedì calendario

Il progetto di Pupi Avati: raccontare Dante tramite il Boccaccio

L’unico trattamento è il Trattatello. La più ghiotta delle sceneggiature – sia essa canovaccio per un film, sia per una destinazione tivù – è quella del Trattatello in laude di Dante Alighieri. È la scrittura – composta tra il 1351 e il 1366 – su cui Giovanni Boccaccio riversa la propria devozione verso il poeta che rende universale l’Italia. Ed è la partitura su cui oggi, Pupi Avati, già regista di due pellicole d’ambientazione medievale (Magnificat 1993 e I cavalieri che fecero l’impresa del 2001) realizza un progetto semplice e spettacolare: la vita del creatore della Divina Commedia raccontata attraverso l’autore del Decameron che del primo non fu solo un devoto ammiratore, bensì un geniale editor.
Dobbiamo al Certaldese, infatti, la titolazione delle tre cantiche – “Divina Commedia” – e sempre a lui, si deve il recupero, nella casa di uno dei tre figli di Dante, degli ultimi tredici canti del Paradiso dati per dispersi. Ed è sempre Boccaccio nel 1350, ventinove anni dopo la morte di Dante a Ravenna, a bussare – per conto della città di Firenze – alla porta del convento dov’è ritirata in preghiera suor Beatrice, la figlia dell’Alighieri, per consegnarle dieci fiorini d’oro di risarcimento da parte della città ingrata sempre verso il suo grandioso figlio.
Se sappiamo che si chiama Portinari l’altra Beatrice, infine – ovvero la celestiale guida del Paradiso, amata dal Poeta – è merito di Boccaccio il cui entusiasmo lo induce a cercare, incontrare e interrogare gli amici e i sodali di Dante e ricavarne così una puntigliosa narrazione viva e romanzesca che è già un film di suo per tutti noi italiani dimentichi di così travolgente grandezza.
Eppure, forse, è lettera morta questo progetto di Avati datato 2001. Il maestro è un bibliofilo e un cultore di dantistica tra i più ferrati. Il suo vanto d’erudizione – ben più che gli sterminati David e i Nastri – sono il Premio Le Goff e il riconoscimento dell’Istituto superiore di studi medievali Cecco d’Ascoli.
Fosse solo per perdersi nei raccoglitori delle schede bibliografiche del suo studio, in ogni cartoncino di quella biblioteca c’è il baluginare di una scena, un fotogramma, un dialogo da cui far svolgere un racconto che è l’autobiografia di tutti noi, un film perfino sfacciatamente pedagogico da cui imparare l’abicì dell’universale poetico ma che purtroppo – vista la scarsa considerazione che l’Italia ha di se stessa, raccontandosi solo per tramite della Dottoressa Giò – non troverà modo, verso e destino.
Faccio torto a Pupi, e volutamente lo faccio, nel raccontare l’arenarsi di questo suo progetto. Non è mai una gratificazione il non aver fatto “in luogo dell’aver fatto” ma ne parlo e violo la riservatezza affinché qualcuno – per esempio Ernesto Galli della Loggia, tra i più attenti nel dibattito pubblico – si accenda di curiosità su questo incidente d’indifferenza.
In un’Italia dove pure tutti abbiamo imparato a familiarizzare con l’Odissea attraverso un grande sceneggiato tivù, come pure con la grande e potente letteratura russa, fa specie.