Libero, 21 gennaio 2019
Svegliarsi dal coma non è un miracolo
Non scherziamo, e chiamiamo le cose con il loro nome: i risvegli dal coma non sono “miracoli” o frutti del caso, ma l’esito del lavoro di professionisti, il punto di arrivo di importanti progressi nel campo della neuro-fisiologia, della rianimazione e il risultato di farmaci sempre più potenti e mirati. Il fatto è che coma, stato vegetativo e morte cerebrale, sono tutti termini che spesso vengono impropriamente usati come sinonimi, vengono confusi uno con l’altro, mentre invece sono condizioni cliniche completamente diverse tra loro, con prognosi ed esiti differenti, per cui un risveglio ritenuto probabile dalla medicina viene spesso riferito dalle cronache come un caso eccezionale, se non addirittura miracoloso. Certamente, per chi non è del mestiere, è difficile ignorare l’effetto sorprendente che provoca il ritorno alla coscienza di un paziente che si ritiene prossimo alla morte, che per giorni o settimane non risponde agli stimoli ed è scivolato nell’oblìo del sonno profondo, e per i familiari che lo assistono, e che stanno valutando l’eventualità di perderlo per sempre, vederlo riemergere da quel letargo e da quella immobilità, vederlo aprire gli occhi ed ascoltare un suo lamento o una sua parola, genera sempre stupore ed incredulità, come se si trattasse appunto di un evento sovrannaturale. Un individuo in coma cerebrale però non è detto che sia prossimo alla morte, perché è un paziente che ha perso solo temporaneamente la coscienza, che non risponde a stimoli verbali o dolorosi, ha gli occhi chiusi, non reagisce a nessun richiamo, ma si trova in uno stato potenzialmente reversibile, a seconda della lesione cerebrale subita, e può essere anche in grado di respirare da solo, perché non ha perso completamente le funzioni neurologiche superiori, le quali appaiono letargiche ma niente affatto distrutte o degenerate. I possibili esiti di uno stato di coma possono variare dalla completa guarigione alla morte, a seconda della posizione, della gravità e del l’estensione del danno cerebrale che ha causato il coma stesso, ed un paziente può uscire dallo stato comatoso con una serie di difficoltà motorie, intellettive e psichiche, che richiedono molti trattamenti per il recupero che avviene sempre gradualmente. Alcuni riacquistano solo poche abilità di base, ma nella maggioranza dei casi il recupero può essere completo ed il paziente ritorna alla piena coscienza. Il coma vero e proprio dura al massimo 4-8 settimane, raramente di più, e dopo questo periodo può risolversi, avere un esito fatale oppure esaurirsi ed evolvere in uno stato vegetativo che con il coma non ha più nulla a che fare. Un paziente in stato vegetativo infatti non è più in coma perché si è svegliato, ha aperto gli occhi ma è incosciente, e se stimolato, non parla, non obbedisce ai comandi, è immobile nel letto perché assente, distaccato dalla realtà, ma il suo cervello è ancora vivo, pur non possedendo più le funzioni neurologiche cognitive che sono andate distrutte, mentre mantiene quelle non-cognitive ed il ciclo sonno-veglia, ovvero si addormenta la sera e si risveglia al mattino, senza però avere alcuna consapevolezza dell’ambiente attorno a sè, vegetando appunto in uno stato di incoscienza. Apparentemente questi pazienti sembrano normali, respirano da soli ma non si muovono, e non sono in grado di bere ed alimentarsi in modo autonomo. Alcuni pazienti possono recuperare in modo variabile, riacquistando per esempio uno stato di minima coscienza, mantenendo però sempre gravi disabilità motorie e psichiche. Il ritorno alla vita normale è rarissimo se non praticamente impossibile, e molti di questi pazienti restano in tale stato per anni o per decenni.
La causa di morte più comune per i pazienti in stato vegetativo sono le infezioni, in particolare modo la polmonite. Inoltre, mentre il risveglio dall’uscita dal coma permette di recuperare la stato di coscienza abbastanza rapidamente, in modo simile al risveglio dal sonno, il recupero della coscienza di uno stato vegetativo è lentissimo e più spesso può non avvenire mai. Il soggetto in morte cerebrale invece, è afflitto da un coma profondo e irreversibile dal quale è impossibile qualunque risveglio, con cessazione di tutte le funzioni del cervello non più recuperabili, riscontrabili all’elettroencefalogramma che risulta piatto per oltre 24 ore, ciò è senza alcuna attività elettrica vitale, preludio sempre della futura morte fisica. Naturalmente la morte vera e propria rappresenta un evento unitario, con cessazione contemporanea delle tre funzioni principali, cardiocircolatoria, respiratoria e nervosa, mentre il concetto di “morte cerebrale” è la diagnosi della morte clinica del cervello, ed è stato introdotto nel 1968 e creato come base di tutte le legislazioni nazionali per stabilire quando il paziente è considerato appunto clinicamente morto, e quando quindi è lecito interrompere la rianimazione perché non più recuperabile, pur essendo ancora a cuore battente. La definizione di morte cerebrale è stata introdotta nel mondo scientifico in contemporanea a primi trapianti della storia della medicina, per legittimare l’espianto di organi in pazienti senza alcuna speranza e prossimi al decesso, ma non è stata stabilita come fine strumentale alla diffusione dei trapianti, bensì come rilievo della cessazione definitiva di tutte le funzioni dell’encefalo, ormai distrutte ed irrecuperabili. Per la morte cerebrale è necessaria la diagnosi di un collegio di tre specialisti, un medico legale, un anestesista rianimatore ed un neurologo, i quali, con diversi esami strumentali, sono in grado di accertare la perdita di tutte le funzioni vegetative e definire con certezza assoluta l’imminente incompatibilità con la vita. Il soggetto cioè è praticamente morto, anche se il suo cuore batte ancora, ma viene mantenuto in vita artificialmente, con respirazione ventilata assistita, con supporto del sistema cardiocircolatorio, al solo scopo di conservare la vitalità degli organi eventualmente destinati all’espianto. Di certo nessun paziente al mondo è mai riemerso o sopravvissuto alla morte cerebrale, mentre sono milioni i soggetti che si risvegliano dal coma e ritornano allo stato di coscienza, cosa rarissima invece nello stato vegetativo. Sfatiamo comunque la leggenda metropolitana del paziente caduto in coma che, grazie ad una voce cara che gli parla ogni giorno o all’ascolto della sua musica preferita, si sveglia e si siede sul letto parlando come un moderno Lazzaro, perché il ripristino della coscienza dopo un danno cerebrale implica un percorso lento e graduale, con molti stadi intermedi, che nulla hanno a che fare con tali ingredienti di valenza emotiva. E contestiamo anche le false notizie su pazienti in coma a cui è stata intenzionalmente “staccata la spina”, perché nessun medico si sognerebbe di farlo prima di aver accertato la necrosi del tessuto nervoso centrale e la morte cerebrale, un gesto che perverrebbe all’attenzione della Giustizia prima che alle cronache romanzate della stampa. In campo scientifico attorno alla perdita di coscienza esistono ancora molte zone grigie, ma oggi riusciamo a far sopravvivere pazienti in condizioni disperate, e molti di loro riemergono dal coma, anche se i risvegli dopo anni restano casi rarissimi e sarebbe sbagliato dare troppe speranze sulle reali possibilità di ripresa di chi cade in stato vegetativo. Certo è che ogni caso di coma è diverso uno dall’altro, e molti di questi rientrano nella sfera dei “risvegli probabili”, mentre nessun altro può essere inquadrato in quella dei “risvegli miracolosi”.