21 gennaio 2019
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Biografia di Alberto Arbasino
Alberto Arbasino (Nino Alberto A.), nato a Voghera (Pavia) il 22 gennaio 1930 (89 anni). Scrittore. «Oggi è il nome stesso di intellettuale che lascia perplessi: mentre il ruolo di un medico è fare bene il medico, il ruolo di un intellettuale è parlare del ruolo di intellettuale. Il mio ruolo è scrivere libri» • Famiglia borghese. «Le famiglie Arbasino si trasferirono verso la metà dell’Ottocento dal paese di Codevilla alla vicina Voghera, dove poi abitarono sempre, tra gli uffici professionali e le case invernali e le proprietà agricole nei dintorni, con vigne, campi e ville estive (poi, residenze di sfollamento). […] Nati nel 1902 ed esattamente coetanei, mio padre e mia madre (figli e congiunti di avvocati) frequentarono insieme il Liceo di Voghera […] e l’Università di Pavia, nell’età del charleston. […] Si laurearono nel 1925: lei in Letterature classiche (ma non insegnò mai), e lui in Chimica industriale, giacché si prevedevano forti sviluppi nella produzione dei nuovi materiali edilizi. Venne invece la crisi del ’29, e così, vendendo una vigna sempre rimpianta, Edoardo [il padre – ndr] acquistò una farmacia (già Baratta, in via Emilia, rifacendola in “stile Novecento”) e poi altre, con maioliche talvolta mirabili». «Consigli per Kulturkritiker che aspirino all’eccellenza. Nascere in una piccola città, magari Voghera, per poterne lanciare qualche decennio dopo la Casalinga. Frequentare la stessa scuola dello stilista Valentino, quasi coetaneo, e perciò durante l’ora di ricreazione mettere le basi di un’amicizia che fra tartine e sfilate continua ancora oggi. Fare parte di una generazione che […] “per anni e anni ha letto un libro al giorno, anche due”, onde suscitare lo stupore dei giovani e l’invidia dei vecchi, compreso Andrea Zanzotto che la confessa. Andare alla Scala negli anni in cui una Callas già leggendaria cantava quasi tutte le sere» (Camillo Langone). «Ho avuto un’infanzia e un’adolescenza abbastanza tristi. Voghera, la vita di famiglia e il contesto delle casalinghe, erano più noie che sorrisi, in realtà. Qualche ricordo lontanissimo si manifesta. […] Reminiscenze ridicole, canzonette trasmesse alla radio dall’Eiar. L’orchestra Barzizza, l’orchestra Angelini. "Sogno, sogno e non ti sogno", "Dolce chimera sei tu", "La pastorella sa…". Poi rinsavisco, e mi chiedo […] come mai mi vengano in mente delle simili stronzate: non è che si possa provare una seria nostalgia per quella roba lì». «Ho fatto in tempo a vivere gli ultimi anni del fascismo e poi tutta quanta la guerra, perché eravamo sfollati in campagna, ed eravamo in difficoltà gravi perché si era in una zona dominata dalle brigate nere e da una Sicherheit tedesca. […] A un certo punto mio padre era stato arrestato da una di queste formazioni fasciste perché facendo il farmacista dava le medicine ai partigiani. […] E, quando veniva arrestato mio padre, dovevano intervenire degli amici di famiglia, degli avvocati, persone che avevano un po’ rapporti con tutti, diciamo: […] siccome nei centri molto piccoli tutti quanti si conoscono da sempre, lì poi ci sono degli accomodamenti. Uno viene arrestato anche, forse, per intimidirlo» (Francesco Pacifico). A Voghera «trascorre la giovinezza compiendo studi classici. Nel 1947 si iscrive alla facoltà di Medicina a Pavia, ma studia solo scienze naturali e biologiche. Si trasferisce all’Università Statale di Milano per frequentare il corso di laurea in Giurisprudenza. Tra il ’54 e il ’56 soggiorna a Parigi, dove segue dei corsi di diritto tenuti da Raymond Aron e da Maurice Duverger presso la Sorbona, e a L’Aia, dove frequenta l’Accademia di diritto internazionale. Si laurea nel ’55 e diventa subito assistente. Viaggia moltissimo scrivendo saggi e réportages culturali che vengono pubblicati su diverse riviste, tra cui Il Mondo, Tempo Presente, Il Verri, Il Ponte. Nel ’57 si trasferisce a Roma per seguire il suo professore: lavora infatti come assistente presso la facoltà di Scienze politiche per diversi anni, ma nel ’65, a causa delle condizioni insostenibili dell’Università, lascia l’incarico. Nel ’57 esce il suo primo libro, i racconti delle Piccole vacanze, e due anni dopo il secondo» (Maria Luisa Vecchi). «Vigeva allora un principio, nella tradizione delle raccomandazioni e degli accattonaggi: mai a Roma come primi venuti, senza uno status o un titolo (di libro, non di laurea) che conferiscano un minimo di fisionomia, oltre che di reddito. […] Alla fine del ’57 coincisero il trasferimento a Roma e agli Esteri del professor Ago [Roberto Ago (1907-1995), il docente universitario di cui era assistente – ndr], l’avvenuta pubblicazione delle Piccole vacanze da Einaudi e un incarico al Palazzetto di Venezia presso la Società italiana per l´organizzazione internazionale, con direzione di Umberto Morra. […] La pubblicazione da Einaudi avviene in seguito ai primi racconti usciti su Paragone e Il Mondo, e con un titolo ovviamente programmatico. "Vacanze" perché ormai è finito anche il dopoguerra dei bambini, coi neorealismi e le retoriche associate alla rielaborazione della sconfitta e alle gesta dei reduci. "Piccole", però, per ovvia necessità economica postbellica. […] Calvino savio "editor", con Bruno Fonzi e Luciano Foà, gravemente: "Hai già ventisette anni, troppo vecchio per debuttare nei ‘Gettoni’. Va messo nei ‘Coralli’". E tutti assentono. Poi, con accortezza editoriale e ligure: "Qui ci sono racconti per cinquecento pagine, ma non si può debuttare con un ‘Omnibus’: non lo leggono e non lo recensiscono. Bisogna incominciare con poca roba: centocinquanta pagine, al massimo. Lo so bene, che ti piange il cuore, ma il vero pericolo sta nel secondo libro, quando hai già dato tutto, e lì ti aspettano. Tu però il secondo libro l’hai già, ed è qui, è L’Anonimo" [L’Anonimo lombardo, costituito dai racconti esclusi dal primo – ndr]». «Il progetto per Fratelli d´Italia come "grand tour di formazione" era teoricamente già pronto. […] Però fu impressionante, arrivando da Milano a Roma, la sensazione di "cominciare a esistere". Non si parlava ancora di “dolce vita”, ma si viveva già il fenomeno». Non mancarono, però, importanti esperienze all’estero. «L’avventura americana di Alberto Arbasino comincia nel lontano 1959. È un giovane molto curioso e molto intelligente, quello che ha appena vinto una borsa di studio Rockefeller per specializzarsi in tematiche giuridiche. Destinazione Harvard. […] È il 1959 quando lei arriva negli Stati Uniti. Che Paese scopre? “Era ancora presidente Eisenhower, i russi incalzavano sulla competizione spaziale, e questo sorprendeva gli americani, abituati al primato. Arrivai in America con una borsa di studio, avviato a una carriera diplomatica. Ma l’insegnamento non mi ha mai interessato, e men che meno occuparmi di relazioni formali tra gli Stati. Mi divertivo molto di più a parlare con i pochi amici che avevo e a scoprire gente nuova e interessante”. Tra la gente interessante c’era anche Henry Kissinger. “Era il direttore del mio corso, e ogni tanto ci faceva lezione. Aveva l’intelligenza di invitare personaggi illustri come Galbraith e Schlesinger. Qualche sabato ci accoglieva sul pratino dietro casa sua, dove veniva allestito un buffet universitario e si discuteva liberamente. Una volta venne a trovarci Eleanor Roosevelt. Girava con un borsone e voleva conoscere noi studenti europei”» (Antonio Gnoli). «Non avrebbe dovuto fare il diplomatico? "Non potevo girare il mondo senza scrivere una riga e raggiungere un’ambasciata periferica dibattendomi tra ruoli e concorsi: non mi faceva vibrare". Come ovviò? "Recensendo cultura tra Parigi, Londra e New York. Da hobby del week-end si trasformò in un lavoro a tempo pieno. Non volevo morire in ufficio"» (Malcom Pagani). Fondamentale, nella sua formazione, la frequentazione dei «poeti, scrittori, intellettuali che animavano la vita culturale di Roma e Milano. Cominciamo dal rapporto con i grandi vecchi della letteratura, personalità monumentali che mi hanno insegnato molto: io provenivo dai libri di Diritto internazionale, non avevo fatto studi letterari. Personaggi come Gadda, uomo difficile e solitario, l’unico verso il quale ho provato qualcosa di simile alla timidezza; o come Aldo Palazzeschi, un capolavoro di ironia; o come Giovanni Comisso, simbolo della libertà totale e dell’edonismo sorridente. Esempi indimenticabili come quello di Mario Praz, capace di intrecciare tanti fili, di occuparsi di letteratura e di pittura, di Laurence Olivier e di Merle Oberon, di musica ma anche di arredamento. […] È quell’intreccio di storie, di immagini, di suggestioni che ti fa pensare a un quadro mentre leggi un libro il cui ritmo ti ricorda la musica di uno spettacolo visto a Londra o a Broadway. Eravamo una generazione molto curiosa, molto sperimentale. Con Italo Calvino, con Pier Paolo Pasolini, con Giorgio Manganelli, Giovanni Testori, Ottiero Ottieri, Luigi Malerba e Raffaele La Capria si usciva quasi ogni sera. Eravamo poveri ma si andava moltissimo a teatro, al cinema. L’arte, l’ho conosciuta andando a vedere le grandi mostre con critici come Cesare Brandi e Giuliano Briganti, facendo visita a Roberto Longhi nella sua casa fiorentina fra gli ulivi. Si parlava, si discuteva da Milano a Roma, dal bar Giamaica di Brera alla trattoria di Cesaretto di via della Croce, dal Festival di Spoleto alla Biennale Musica di Venezia. Lì, ci si arrivava alla fine di settembre, dopo l’agosto in America o in Grecia, e con tutte le B: Luciano Berio, Cathy Berberian, Pierre Boulez, Sylvano Bussotti. Assistevamo alle prime esecuzioni assolute di opere musicali: capitava di ascoltare quella di un coetaneo come Berio o del vecchio Stravinskij oppure cose dei viennesi del Novecento mai sentite prima. A ripensarci, quel che era veramente divertente era il fatto che nessuno di noi era qualcuno. Nel gruppo c’erano Giovanni Urbani, Dudù La Capria, Franco Zeffirelli, Piero Tosi, Mario Missiroli, Sandro Viola, Mauro Bolognini. E poi le nostre inseparabili Franca Valeri e Adriana Asti, che con Nora Ricci formavano un trio straordinario di spiritose. Che strano! Mai conosciuto un attore di sesso maschile con senso dell’umorismo. Non ne avevano né Romolo Valli né Giorgio De Lullo. E Luchino Visconti, poi, con i suoi amici e i suoi attori aveva il tono di un signorotto con i dipendenti. Anche Giorgio Strehler era così. Il concetto era: o aggettivi con i superlativi o non siamo più amici. D’altra parte, gli italiani non sono mai stati un popolo dotato di humour. Pur essendo degli sconosciuti, ognuno era già quello che sarebbe diventato. E, non appena ci si conosceva, ci si riconosceva subito. Perché? Mah. Facevamo un sacco di colazioni: allora usava molto. E alle sette andavamo alla redazione del Mondo, che era il salotto culturale, e con Mario Pannunzio, Sandro De Feo e Nicola Chiaromonte sceglievamo un teatro, e dopo: a via Veneto. Quando Federico Fellini cominciò a girare La dolce vita, ogni sera arrivava il suo segretario a dirci che il maestro ci pregava di andare sul set a impersonare noi stessi. E noi, ogni sera: mai. Figuriamoci se avevamo voglia di passare la notte ad aspettare il ciak del maestro e far poi magari una figura ridicola». Arbasino fu anche tra i fondatori del «Gruppo 63». «“Il Gruppo 63 era costituito da una piattaforma generazionale anagraficamente piuttosto uniforme, dato che avevamo tutti la stessa età. Voglio dire che i diversi esponenti del gruppo – da Manganelli a Sanguineti, a Balestrini, a Giuliani, a Guglielmi, Barilli – erano giovani coetanei che a un certo punto si erano messi in testa – e a mio parere giustamente – di approfittare del boom economico (iniziato nel ’56 e destinato ben presto a estinguersi, ma ancora in corso in quei primi anni Sessanta) per rialzare il livello medio della letteratura. […] Ogni componente del Gruppo possedeva, per di più, una posizione economica sufficientemente stabile all’interno della cosiddetta “industria culturale”: non essendo, dunque, arpionati dal bisogno, non si era nemmeno disponibili allo scendere a compromessi con il mercato. […] Si trattava di momenti di vera e propria collettività. Stretti attorno a Luciano Anceschi e al Verri, ognuno, con la propria capacità e con i propri mezzi, si sforzava di migliorare qualità e livelli della cultura letteraria italiana dell’epoca”. […] Nel 1963 esce la prima edizione di Fratelli d’Italia, in cui – tenendo anche conto dei radicali rifacimenti successivi – molti hanno riconosciuto il tuo capolavoro. Il 1963 è anche l’anno di fondazione del Gruppo 63: si tratta di una mera coincidenza, di una felice congiunzione astrale, o di qualcosa d’altro? “Di una felice congiunzione astrale, direi, oltre che di una coincidenza, dato che, per la verità, a scrivere un libro di tale mole avevo iniziato molti anni prima. L’idea era sempre stata quella di riprodurre in contemporanea il parlato che si usava allora. Si trattava del parlato di una conversazione colta, di un certo livello, come non credo che ne esistano più oggi. In un certo senso, Fratelli d’Italia costituisce una testimonianza dell’epoca, in quanto in quegli anni le conversazioni colte erano caratterizzate nei modi rappresentati in quel libro”» (Fausto Curi). «Giangiacomo [Feltrinelli – ndr] difese Fratelli d’Italia dall’ira dei letterati. “Contro il libro, basandosi sull’assioma del ‘ci sono dentro tutti’, si scatenò una violenta campagna stampa. I protagonisti del mondo cultural-mondano si ritraevano: ‘Ci siamo tutti, ma io non sono così’. Io ero stato attento a non far coincidere pedissequamente cappellini, mariti e ambientazioni, occultando la riconoscibilità dei personaggi, ma Bassani non era convinto. Credeva che ci fossero allusioni che gli sfuggivano. In ogni caso, Feltrinelli si tutelò”. Ingaggiò un avvocato? “Per non prestare il fianco alle querele. Quelle in cui si viene assolti, ma intanto l’opera viene bloccata per anni. Era l’epoca dei querelatori per immoralità. Ci si basava su una precauzione. Il mantra era: ‘Nulla di sconveniente nelle prime 50 pagine. I magistrati arrivano a 49. Se non trovano niente, chiudono il libro’”. Dalle greppie legalitarie passò anche lei? “Adeguai al precetto L’anonimo lombardo, […] pieno di ragazzi perduti. Tutto nella seconda parte. Come da regola”» (Pagani). Tra le numerose opere successive, oltre alle nuove versioni di Fratelli d’Italia (dopo la prima, pubblicata da Feltrinelli nel 1963 e già in piccola parte modificata nel 1967, quella pubblicata da Einaudi nel 1976 e quella pubblicata da Adelphi nel 1993), i romanzi Super-Eliogabalo (Feltrinelli, 1969), La bella di Lodi (Einaudi, 1972), Specchio delle mie brame (Einaudi, 1974); le raccolte poetiche Matinée. Un concerto di poesia (Garzanti, 1983), Rap! (Feltrinelli, 2001), Rap 2 (Feltrinelli, 2002); le raccolte di saggi Parigi o cara (Feltrinelli, 1960), Certi romanzi (Feltrinelli, 1964), Grazie per le magnifiche rose (Feltrinelli, 1966), Un Paese senza (Garzanti, 1980), Mekong (Adelphi, 1994), Lettere da Londra (Adelphi, 1997), Paesaggi italiani con zombi (Adelphi, 1998), Marescialle e libertini (Adelphi, 2004), Dall’Ellade a Bisanzio (Adelphi, 2005), L’ingegnere in blu (Adelphi, 2008), La vita bassa (Adelphi, 2008), America amore (Adelphi, 2011), Pensieri selvaggi a Buenos Aires (Adelphi, 2012), Ritratti italiani (Adelphi, 2014). Tra il 2009 e il 2010 Mondadori ha dedicato ad Arbasino due volumi antologici della prestigiosa collana «I Meridiani», intitolati Romanzi e racconti e curati da Raffaele Manica (in cui l’unica edizione di Fratelli d’Italia riportata è la prima, quella del 1963) • «Come già aveva fatto Carlo Dossi, il lombardo Arbasino vuole che nella letteratura passi la conversazione di una società, la vita: trasformando il romanzo in “una commedia mondana travestita da dialogo di idee”; e reinventando il “sound del linguaggio parlato” sulla pagina del romanzo-conversazione, che sa discutere di se stesso in quanto scelta romanzesca e sa mescolare e agglutinare i vari generi letterari, e musicali, fino al recupero del cabaret pop nel Super-Eliogabalo. Dietro le scelte di Arbasino premono le "eversioni" stilcritiche di Dossi (“Vedere la realtà per elenchi” e per magazzini di pensieri) e di Gadda, che della “madornale figura retorica dell’Enumerazione” (è spiegato in Certi romanzi) aveva fatto un modello di lettura pluriprospettica della realtà. Arbasino è un conversatore "scritto", diceva Manganelli. Sulla pagina tratta le parole come materia sonora. La sua voce "scritta" gioca dottamente con le citazioni. Si fa maliziosa, ha sottigliezza intellettuale, va in falsetto, replica e manomette le fonti (un intero dramma di Calderón de la Barca, nel Principe costante), prevarica con le rime, opera trasferimenti verbali dalla pittura. […] È facile a questo punto parlare di frivolezza arbasiniana. Ma frivolo Arbasino lo è, nel senso che i moralisti classici davano al termine; e che lo stesso Arbasino adotta in un saggio su Ennio Flaiano: “Bisogna proprio travestirsi da grandi frivoli per far intendere le cose più serie”. […] La “conversazione di idee” è, nell’opera di Arbasino, un materiale di testimonianza: un’attualità che diventa memoria e "frivola" trafittura del presente, del suo stato culturale, delle sue precarietà, delle illusioni e dei vezzi; e si aggiorna, in quanto ritratto collettivo di un’epoca che vive se stessa in costume, attraverso quella rilettura d’autore che è la riscrittura delle opere. Si pensi al romanzo Fratelli d’Italia, quattro volte restituito al pubblico, di volta in volta riletto e rivisto dall’autore, in un arco di tempo che va dal 1963 al 1993. I romanzi e i racconti di Arbasino […] fanno tutti insieme una strutturata memoria culturale del secondo Novecento: un romanzo storico […] lungo mezzo secolo» (Salvatore Silvano Nigro) • «Nell’83 Arbasino fu eletto alla Camera nelle liste repubblicane, e fino all’87 fu tra i deputati più presenti. "Legai molto con i miei vicini in commissione: Adolfo Sarti, di Cuneo, ministro importante e uomo coltissimo, e Michele Zolla, che poi lavorò al Quirinale con Scalfaro. Di fronte c’era Natalia Ginzburg, che smistava tutte le carte a me: "Fai tu tutto il turismo e spettacolo…". Detestavo il Transatlantico, i divani, i baci e abbracci tra panzoni, le passeggiate sottobraccio alla buvette. Con Sarti e Zolla ci facevamo il caffè alla macchinetta. La Iotti era scrupolosissima: ascoltava tutti, anche gli ostruzionisti, senza farsi mai sostituire; contava i minuti, al massimo 45, e al quarantaseiesimo scampanellava. Mi ricordava le presidi della mia infanzia. La direttrice didattica di Voghera"» (Aldo Cazzullo) • «Parlami della casalinga di Voghera, tua metafora-principe. “Tanti anni fa la casalinga di Voghera concentrava in sé tutto ciò che di arretrato e di piccoloborghese c’era in Italia. Da qualche tempo s’è aggiornata. Vive di provocazioni e di trasgressioni. È impietosa. Irriverente. Dissacrante. Ma rimane più piccoloborghese che mai, rappresentando la mutazione del gregge cui appartiene”. Potrebbe partecipare a un raduno di “no global”? O, che so io, di “No Tav”, di “Sì Tav”? “Come no? Sarebbe in prima fila. Con accessori griffati”» (Nello Ajello) • Celibe. «Beh, è questione di ritegno, di buona educazione. Non si dice mai "ti amo", se non nella canzone napoletana» (ad Alessandro Piperno) • «Cosa pensa dei diritti civili dei gay? "Che è più saggio scriverne presso un notaio. La mania di metter su una famiglia legalizzata è un riflesso narcisistico. […] Al politicamente corretto preferisco l’antica mancanza di categorie con etichette"» (Pagani) • «Anticomunista e avversario del politicamente corretto senza essere di destra. Pronto a intervenire nel dibattito civile senza essere di sinistra» (Cazzullo) • «Diete, cammino e nessun tabagismo. Le uniche sigarette della mia vita, le ho fumate per darmi un tono» • «Sento dire spesso […] che sarei uno scrittore barocco, ma la definizione non mi soddisfa. Mi considero piuttosto uno scrittore espressionista. L’espressionismo non rifugge dall’effetto violentemente sgradevole, mentre il barocco lo fa. L’espressionismo tira dei tremendi vaffanculo, il barocco no. Il barocco è beneducato». «“Per scrivere i miei romanzi sono sempre partito dal principio di inventare una struttura nuova e alternativa. Forse il vantaggio degli scrittori della mia generazione è l’aver avuto sotto gli occhi l’esempio da non imitare di Moravia. Il quale, una volta azzeccata una formula, pubblicava decine di racconti romani o di romanzi sull’alienazione”. E quali erano i modelli giusti? “Gadda, Comisso, Praz, Palazzeschi. A quel tempo erano emarginati. In un certo senso, li riscoprimmo noi: io, Citati, Guglielmi, tutti gli altri”» (Piperno). «Due cose ho sempre bandito dalla scrittura, perché non mi piacciono. E in generale non piacevano quarant’anni fa: la vita in famiglia e tutte quelle citazioni su una cosa che ha detto la mamma o la zia. Oggi vedo un’infinità di libri che non parlano d’altro, e un’infinità di scrittori che non possono attaccare un discorso senza citare una cosa importante detta una volta dalla nonna» • «Ritengo che Arbasino sia il più grande scrittore italiano vivente. Il più intelligente, quello che ha fatto le scelte più ardite, evitando ogni ricerca di consenso. Arbasino non ha mai strizzato l’occhio a nessuno. Oltreché colto e intelligente, ha una forte struttura morale. È riuscito a imporsi nonostante la sua antipatia (perché può essere molto antipatico) e l’asprezza della sua scrittura. Una volta gli dissi, e voglio ripeterlo, che la sua scrittura, come la grande cucina francese, sa sempre un po’ di merda» (Angelo Guglielmi). «Salvo battuta, è un intellettuale da birignao omosessuale. Nessuna sostanza, narratore alla panna montata che scrive sempre lo stesso libro» (Cesare Cavalleri) • «La carriera dello scrittore italiano ha tre tempi: brillante promessa, solito stronzo, venerato maestro». «Non sono un intellettuale, men che meno marciante. Non urlo, io: non scandisco un bel niente». «Il sonno della ragione genera mostre, di preferenza brutte» • «La morte la spaventa? "Avevo più paura da giovane. Il timore di non riuscire a esprimersi è più invadente della clessidra che scorre. Ho composto qualche sinfonia forse memorabile e molta musica da camera. Mi consola. Da ragazzo disperavo di terminare Fratelli d’Italia"» (Pagani). «All’inferno ci va chi ci crede». «Si può avvertire qualche dolore per epoche ancora non del tutto invase dai media e dal turismo di massa. Per i capodanni in Brasile con una valigia leggera. Abiti chiari. Due tappe. Sosta a Dakar e poi giù, in Sudamerica, vestiti di bianco, a fare il bagno nel trapasso tra notte e giorno. Ipanema, Copacabana, la musica, la gioia di vivere che quel continente, assieme alla ricchezza, ha perso in un sol colpo. Sorgeva il nuovo anno e tu osservavi il principio sullo sfondo delle macumbere con le candele. Sarebbe lecito rimpiangere, ma non ne vale la pena. È stato bello, e basta».