Il Messaggero, 21 gennaio 2019
Jack Kerouac e il robot, l’esperimento on the road
Una mattina di marzo del 2017, una Cadillac nera con una telecamera a cupola bianca agganciata sul cofano è partita da Brooklyn puntando il muso verso New Orleans. La missione era quella di mettersi sulle tracce di Sal Paradise, alter ego di Jack Kerouac nel romanzo Sulla Strada scritto nel 1951. Il bagaglio comprendeva anche un gps un po’ obsoleto e un microfono che penzolava all’interno, tutti collegati a un portatile connesso ad una umile stampante di ricevute a rotolo. Il driver e demiurgo di questa impresa è Ross Goodwin, ex ghostwriter nell’amministrazione di Obama e appassionato di reti neurali e scrittura automatica. A lui piace definirsi scrittore degli scrittori, ma oltre a generare poesie e sceneggiature frutto della fantasia di un algoritmo addestrato, nel 2014 si è divertito a trasformare un rapporto sulle torture della Cia presentato al Senato Usa, in un romanzo. L’opera era discutibile, banale e priva di verve, ma durante un reading organizzato con alcuni amici suscitò una vivace discussione sul tema, all’opposto di quando fu esposto alla commissione istituzionale, generando soltanto sbadigli e noia.
L’INTUIZIONE
A Goodwin si accese la lampadina: capì che doveva continuare a battere su quei tasti, senza tentare di aiutare un computer a sviluppare la sua emotività o progettare un sofisticato generatore di plagi, ma espandere la creatività umana utilizzando l’intelligenza artificiale. Nell’esperimento in cui Kerouac diventa una automobile senziente, l’obiettivo è trasformare la strada da New York a New Orleans (una famosa tappa presente nel racconto originale) nel suo terreno di caccia. Pochi istanti dopo essere partita, la stampante ha sputato fuori la prima frase: «Erano le nove e diciassette del mattino, la casa era pesante». Un bell’inizio.
Durante il percorso l’intelligenza artificiale ha tradotto in versi tutti gli stimoli combinati dai sensori, ispirandosi a una struttura fatiscente sulla costa, a una protesta xenofoba che bloccava il traffico o al calo di tensione del computer e la sosta fuori copione in un minimarket per acquistare un carica batterie nuovo da collegare all’accendisigari dell’auto.
IL PROCESSO CREATIVO
Il processo creativo in fondo ricalcava quello di Kerouac, che ha descritto nelle tre settimane a bordo di un’auto l’America che gli scorreva intorno, registrando tutto usando una macchina da scrivere e un rotolo di carta lungo 36 metri. Alla fine di quattro giorni di viaggio la Cadillac di Goodwin era piena di foglietti sparsi dappertutto, trasformati in un libro dal titolo 1 the Road, grazie all’editore Jean Boîte, che lo ha furbescamente lanciato sul mercato etichettandolo come «il primo romanzo scritto da una macchina».
Scorrendo il testo traspare l’esperienza allucinatoria della vita vissuta da un bot randagio, senza però somigliare a una trita novella distopica. Come i libri di viaggio della letteratura underground americana, l’automobile di Goodwin ha catturato il tempo e il luogo, la meraviglia e la confusione del momento rielaborandolo in prosa pixellata. Come la frase che chiude la prima giornata di viaggio: Erano sette minuti dopo le dieci di sera. La stazione era deserta. Il percorso era già al sole. O ancora: «L’acqua è scura e sembra essere un contenitore, e le stelle stanno ancora scoppiando». Difficile dire se sia un testo profondo o una accozzaglia di sciocchezze. Probabilmente è entrambe le cose.
IL LEONE POETA
Questa esperienza ha comunque fruttato a Goodwin l’attenzione di Google, che seguiva già il suo lavoro alla New York University. Big G ha prima pagato il conto del noleggio della Cadillac e finanziato la produzione di un corto, assumendolo successivamente nel suo programma di ricerca Artists and Machine Intelligence.
Il suo ultimo lavoro sulle tematiche dell’IA applicata alle arti letterarie ha le fattezze di un leone di resina rosso fuoco, parcheggiato da settembre accanto ai quattro felini che fanno la guardia alla colonna di Trafalgar Square a Londra. La creazione della statua porta la firma dell’artista multimediale Es Devlin, realizzata con il supporto di Google. Ma il cervello che anima il progetto Nutri il leone è guidato da un algoritmo progettato da Ross Goodwin, che interagendo con i passanti si ciba delle loro parole restituendole in forma poetica, proiettandole di notte sulla colonna o facendole scorrere sul corpo traslucido della statua. Lo spirito dell’installazione è sperimentare una sorta di poesia automatica in crowdsourcing, con una sfinge hi tech che offre enigmatiche risposte a chiunque la nutra con delle parole, aggiungendo un altro tassello al viaggio nella mente di un Bot iniziato in auto a Brooklin in compagnia del fantasma digitale di Kerouac.