La Lettura, 20 gennaio 2019
In scena a New York tutto Gatsby minuto per minuto
Francis Scott Fitzgerald morì il 21 dicembre 1940 convinto di essere un fallito. Oggi Il grande Gatsby, il più noto tra i suoi romanzi, vende mezzo milione di copie all’anno. Pubblicato nel 1925 e presto accantonato per l’iniziale scarso interesse dei lettori, durante la Seconda guerra mondiale fu inserito in una speciale collana di tascabili che l’esercito e la marina statunitensi distribuirono alle truppe. I militari si passavano Il grande Gatsby tanto quanto le riviste di pin-up. Da allora sono cominciati anche gli innumerevoli adattamenti cinematografici e teatrali. L’unico (di questi ultimi) che finora abbia davvero conquistato il pubblico e la critica è Gatz del gruppo newyorkese Elevator Repair Service, una maratona di 8 ore – due di pausa – durante la quale 13 attori portano in scena il romanzo, parola per parola. Gatz, nomignolo di Gatsby ragazzo, ha debuttato nel 2006 e ha girato il mondo anche in Paesi non di lingua inglese. Assente dal 2012, mercoledì 23 gennaio Gatz torna a New York per 8 date all’Nyu Skirball. «Credo che parte della decisione di venire a vederci sia il desiderio di portare a termine un impegno preso con sé stessi», racconta il regista John Collins a «la Lettura». «È uno spettacolo lungo, non però più lungo del necessario».
Come se gli spettatori si affidassero all’autore.
«A livello intuitivo probabilmente gli spettatori si fidano di Francis Scott Fitzgerald anche più di quanto si fidino di noi. La loro esperienza è definita da un’autorità più alta. Quando un autore riesce nell’impresa di scrivere un romanzo che è insieme lirico, efficace e compatto, ogni parola è avvertita come necessaria. Arriva sempre il momento in cui gli spettatori si sintonizzano sul ritmo del romanzo e dimenticano il trascorrere del tempo, anche quelli che all’inizio erano scettici. Con un montaggio è molto più facile il rischio che il pubblico avverta la messinscena di un classico come troppo lunga, o troppo corta».
Perché «Il grande Gatsby» resta immortale?
«Al di là dei punti storici e sociologici, ritengo che la risposta sia che ci sarà sempre spazio per qualcosa di scritto con tanta bellezza».
È dunque merito della prosa.
«Sì, ma è anche una storia personale e universale su ciò che significa essere separati a lungo da una persona che si desidera e sulle conseguenze che questo comporta, su quanto ti possano consumare. Un racconto sulle scelte che le persone provano a compiere per la propria vita e il proprio futuro, soprattutto quelle più giovani: ambiziose ma prive di esperienza».
Senza dimenticare l’umorismo di alcuni passi.
«Quando veneriamo un’opera tendiamo a dimenticare quanto le cose grandiose possano anche avere un meraviglioso senso dell’umorismo. Soprattutto quando la leggiamo nero su bianco. In scena siamo arrivati a capire che basta leggere Il grande Gatsby ad alta voce per rivelarne l’incredibile senso dell’umorismo e l’ironia. Alcuni passi sono vere scene da commedia di guerra tra i sessi. Ci sono state serate in cui gli spettatori erano convinti che avessimo aggiunto qualche battuta per renderlo più comico».
E come vi comportate con i passi che oggi possono risultare offensivi?
«A questo non c’è una soluzione. Il libro viene da un tempo in cui le persone avevano attitudini e prospettive che oggi non tolleriamo. Ci sono descrizioni che suonano innegabilmente antisemite o razziste, il che mette a disagio. Senza cercare di autoassolverci dal perpetuare certe immagini, la nostra scelta è di presentare il libro così come è stato scritto».
...nei «ruggenti anni Venti».
«Sì, che nonostante sia uno sfondo ricco e stimolante, credo abbia spesso portato a fraintendimenti. Si parla de Il g rande Gatsby come una storia di eccesso del sogno americano e della sua promessa, ma per me è una storia molto complicata su quanto sia difficile scappare da quello da cui proveniamo. Se la storia di Gatsby è una tragedia, quella di Nick Carraway, il narratore, è la storia di un ragazzo che diventa adulto e impara a capire chi è e qual è il suo legame con il luogo d’origine».
Qual è il suo punto di vista sugli adattamenti di Hollywood?
«Credo che i produttori e i registi molto spesso non siano stati in grado di resistere alla tentazione di essere sedotti dalle mitologia di Gatsby, allo stesso modo in cui ne sono stati sedotti i partecipanti alle feste, che sono poco informati. Bisognerebbe adattarlo dal punto di vista di Nick, che all’inizio è un po’ scettico e poi arriva a capire che Gatsby non è un milionario di successo ma una sorta di triste fallimento di un ragazzo cresciuto in povertà in una fattoria del Midwest, ambizioso e innamorato. Tutto il capitolo finale è ricco di immagini bellissime. Troppe volte questo capitolo è stato ridotto a una breve sequenza con la voce di Nick che legge soltanto l’ultima pagina».