La Lettura, 20 gennaio 2019
Dostoevskij diventa un manga
Nella capitale della Russia zarista, San Pietroburgo, ai visitatori si offre lo spettacolo di «bambini scalzi, gruppi di ubriachi e prostitute, alcuni con delle speranze, altri pieni solo di disperazione». Avverte Osamu Tezuka, nel suo Paese soprannominato «il dio dei manga», che la vicenda narrata in questo suo capolavoro, pubblicato in Giappone nel 1953 ed edito ora, per la prima volta in Italia, da J-Pop Manga (Edizioni BD Milano), «è una storia criminale». Scomparso nel 1989, laureato in Medicina senza aver mai esercitato la professione, affascinato dalla potenza espressiva delle immagini e dalla forza delle parole nelle grandi opere delle letterature delle varie nazioni, Tezuka ha affrontato qui la trasposizione in fumetto di Delitto e castigo di Fëdor Dostoevskij.
Per le vie procede lo studente Raskol’nikov, costretto a lasciare l’università per mancanza di mezzi. Da una vecchia usuraia cerca danaro, dando in pegno qualche oggetto di famiglia. È «cupo, tetro, altezzoso e superbo», così lo descrive un amico; ma pure «generoso e buono», anche se «preferisce commettere una crudeltà che esprimere con parole il proprio cuore». E «non si interessa mai di ciò di cui si interessano tutti gli altri in un dato momento», poiché «ha un’altissima opinione di sé e, a quanto pare, non senza un certo diritto».
«E pensare che c’è chi rimane povero nonostante lavori come uno schiavo», mentre «una bestia» come quell’usuraia «è piena di quattrini... nonostante sia inutile per il mondo». Così Tezuka riassume la parabola che conduce Raskol’nikov al delitto. Nel vestito il «giovane studente» nasconde un’ascia. Si arrampica, non visto, lungo le scale di un condominio, bussa alla porta della strozzina, si fa aprire. Infine ne esce: l’ascia salda ancora nella destra. Tezuka ci fa vedere il corpo esanime dell’usuraia solo una volta, quasi fosse un particolare insignificante… Era stato lo stesso Raskol’nikov a spiegare in un suo saggio come gli esseri umani si siano sempre divisi tra «ordinari» e «straordinari»; e sono solo questi ultimi che, ricorrendo a qualsiasi mezzo (incluso il delitto), sono in grado di cambiare il mondo; sono loro a sottomettere le persone comuni, ridisegnare i confini geografici, controllare l’universo della politica: «uomini come Napoleone», scrive Dostoevskij – o tipi come Hitler o Stalin o Eisenhower, aggiunge Tezuka in uno spregiudicato «gioco di anacronismi».
Come osserva in una breve ed elegante postfazione Giorgio Fontana, scrittore e fumettista, il «dio dei manga» si impegna così a essere fedele a Dostoevskij tradendolo con «profondi gesti di eresia». Non solo fa circolare gli yen giapponesi nella Russia tra Ottocento e Novecento, o lascia che i proletari sognino di consumare specialità nipponiche (come tonkatsu con l’anko, cioè cotoletta di maiale con pasta di fagioli rossi); giunge a «stravolgere il finale stesso del romanzo». In non pochi momenti la corrispondenza tra l’originale russo e il manga giapponese è precisa: per esempio, nel delineare il rapporto del protagonista con il giudice istruttore Porfirij Petrovic, l’indagatore che giunge a Raskol’nikov perché ha saputo riconoscere quanto del giovane ribelle fosse in un lontano passato presente nel proprio stesso cuore, e vuole che il principale sospettato arrivi a una spontanea confessione, pur ammettendo che le idee di Raskol’nikov avessero qualcosa di «affascinante».
E poi c’è l’attrazione dell’universo femminile. Come nel romanzo di Dostoevskij anche nel manga di Tezuka compare una «strana» ragazza, Son’ja Marmeladova, che si prostituisce per sfamare il padre, caduto in miseria, nonché la matrigna e i fratellastri più piccoli. Raskol’nikov le si avvicina perché presume che ella abbia oltrepassato qualsiasi distinzione tra «bene» e «male», e si senta oppressa dall’idea di aver «peccato» inutilmente, proprio come è capitato a lui. In una giornata di pioggia Son’ja, però, confida a Raskol’nikov di essere «certa» che «Dio la salverà», e il nostro criminale si chiede, guardandola riflessa in una goccia d’acqua, come possa nutrire quella fede, «se Dio non esiste!». Nonostante gli spunti che Nietzsche ritroverà in Dostoevskij, questa non è l’orgogliosa proclamazione della «morte di Dio», spazzato via da chi è giunto «al di là del bene e del male».
Raskol’nikov è sempre più messo all’angolo tra il candore di Son’ja e l’intelligenza di Porfirij. Dovrà confessare il delitto, dal momento che, come dice quel giudice, «i colpevoli sono come le falene che si concentrano vicino alle lampade perché non sanno che quella luce le distruggerà». Ed è nell’illustrare la danza mortale della colpa intorno al lume della verità che la fantasia figurativa di Tezuka si scatena in una sequenza di figure mute, ma di grande eleganza. Ciò esclude la redenzione finale: indotto da Son’ja, Raskol’nikov si decide a confessare il delitto. Dostoevskij ci narrava che sarà condannato alla deportazione in Siberia e solo così ritroverà il senso di un’autentica solidarietà con tutte le creature umane. Nelle ultime pagine del manga, invece, Raskol’nikov scende in una piazza e, in mezzo alla folla, si inginocchia a dichiarare a gran voce la sua colpa. Nessuno gli presta attenzione: è scoppiata la rivoluzione – soldati, borghesi e proletari paiono avere altro a cui dedicarsi.
Svidrigajlov, personaggio apparentemente minore, invita Raskol’nikov ad aggregarsi al suo «gruppo che si prefigge di sistemare questo mondo marcio» a colpi di pistola. Ma l’alternativa di realizzare alla Lenin le profezie di Marx non convince uno spirito «altezzoso e superbo», che ha già compreso la vanità dell’azione «rivoluzionaria». Tezuka lo lascia, mentre lui a stento si rialza per proseguire la sua traiettoria solitaria nella città assordata dal fragore delle armi. Non ci sono né «superuomini» né «eroi del popolo», mentre il vecchio Dio si è ritirato in qualche piega del cosmo che i fisici del nuovo secolo indagheranno con la loro matematica e con i loro strumenti.