La Lettura, 20 gennaio 2019
Il potere dei Meme
Effimeri, spesso frivoli. Eppure i meme – dalle immagini digitali dei gatti ai selfie, ai pussyhat, i cappelli rosa a due punte delle proteste femminili – sono ormai la forma di comunicazione dominante. Online ma anche offline, nella nostra vita fisica. «Sono la street art delle reti sociali, i nuovi graffiti. Cambiano la nostra cultura – spiega An Xiao Mina – ma hanno anche un forte impatto sulla politica. Nel mio Paese d’origine, la Cina, i meme sono stati usati per riconquistare spicchi della libertà d’espressione cancellata dal governo con la censura».
Artista, ricercatrice all’università di Harvard, giornalista, la giovane studiosa dei nuovi flussi di comunicazione ha appena pubblicato per Beacon Press Memes to Movements, un libro che lei per prima considera un po’ paradossale: un volume pesante, con copertina rigida e spigoli taglienti nell’era della realtà virtuale e della comunicazione digitale, 240 pagine zeppe di note e riferimenti bibliografici per analizzare un fenomeno che è essenzialmente visuale. «L’ho scritto – racconta a “la Lettura” in un incontro a New York – perché la gente deve poter godere delle opportunità offerte dal web ma anche essere consapevole di quanto stia cambiando».
Va definitivamente in archivio l’illusione che la rete possa produrre il mitico «villaggio globale», tecnologia che demolisce le barriere: «Internet, nei fatti, frammenta il mondo per via di regole e livelli di libertà diversi nelle varie regioni. Ma ci sono anche confluenze positive, simboli di protesta trasmessi da una comunità all’altra. Siamo entrati in una nuova era dominata da una cultura dei meme abbracciata non soltanto da chi li usa per cercare di esprimersi liberamente ma anche da chi detiene il potere. E ci sono simbolismi messi in campo da attivisti per i diritti civili che vengono poi saccheggiati a fini opposti da razzisti: pensiamo alla campagna #BlackLivesMatter, anche questo un meme, mutuata dai white supremacist che l’hanno trasformata in White Lives Matter».
Giovane – ha meno di trent’anni – e cresciuta in Cina (nel libro racconta di essere stata assistente a Pechino di Ai Weiwei quando, nel 2011, l’artista fu arrestato) An Xiao Mina per illustrare il peso della cultura dei meme (termine coniato nel 1978 dal biologo inglese Richard Dawkins: indica qualunque frammento culturale che può essere replicato e anche trasformato nei rimbalzi tra sfera digitale e mondo fisico) parte da ciò che può apparire il fenomeno più banale: i gatti che invadono il web, dai video di quelli domestici alle immagini stilizzate usate nei contesti più diversi: «Oggi – sostiene Ao Xiao Mina – sono ovunque e la popolarità conquistata dai felini grazie a internet non è un fatto così banale. Rappresentato fin dal tempo degli antichi egizi, il gatto, simbolo di ribellione, di ambiguità, anche di femminilità, non ha mai avuto vita facile a differenza del cane, fedele amico dell’uomo. Guardato sempre con diffidenza, venne sottoposto perfino a persecuzioni religiose, dall’Inquisizione spagnola alla caccia alle streghe di Salem. Nel 1484 Papa Innocenzo VIII arrivò a scomunicare i gatti dando il via a uno sterminio di massa che, secondo alcuni, fu una concausa della successiva epidemia di peste bubbonica: senza più nemici, i topi si diffusero ovunque. Ma anche in anni più recenti i gatti sono rimasti in seconda fila. I miti televisivi del Dopoguerra sono stati Lessie e i cani poliziotto. Da Edimburgo a Central Park, qui a New York, dove c’è una statua di Balto, i cani vengono celebrati con monumenti. I gatti no. Ora le cose sono cambiate con internet, che entra nelle case e rende pubblico quello che prima era privato: è cambiata la prospettiva».
Per l’autrice è possibile anche una lettura anti-establishment: «Ha perso forza una cultura egemonica dei media tradizionali che aveva favorito i cani, mentre la gente, creativa e con più modi per esprimersi, ha imposto i gatti. Usati anche in politica come nel caso di #Cats AgainstBrexit: immagini che propongono felini spaventati dalla prospettiva di lasciare la Ue». Il messaggio politico trasmesso con gli animali è un fenomeno che va ben oltre i gatti. An Xiao Mina racconta il caso del caonima, un lama che vive nel deserto del Gobi: scorrazza libero, ma deve guardarsi dagli attacchi letali degli hexie, grossi granchi delle zone fangose. L’immagine di questo lama è diventata, in Cina, un simbolo di libertà, in contrapposizione al granchio, allegoria dell’oppressione dittatoriale. Il suo nome in mandarino, infatti, suona come «armonia», la parola chiave della campagna lanciata nel 2006 dall’allora presidente Hu Jintao che proponeva una «società socialista armoniosa»: in realtà la soppressione di ogni forma di dissenso.
Spesso, continua l’autrice di Memes to Movements, i meme varcano gli oceani e ispirano altri movimenti di protesta: nell’estate del 2014 la gente che manifestava in America contro l’uccisione di Michael Brown, un ragazzo nero disarmato, freddato dalla polizia a Ferguson, in Missouri, levava le braccia al cielo e scandiva Hands up, don’t shoot (le ultime parole di Michael secondo alcuni testimoni). Poco dopo le stesse manifestazioni con le braccia in alto si sono ripetute a Hong Kong, città cinese a «statuto speciale» che chiede elezioni a suffragio realmente universale. Un simbolismo al quale, dopo i tentativi della polizia di disperdere i cortei con gli spray al peperoncino, si aggiunse quello degli ombrelli gialli con i quali chi protestava si proteggeva dalle sostanze urticanti.
Simbolismi concepiti per aggirare la censura. Ma ci sono riusciti davvero? L’autrice riconosce che i successi sono stati parziali perché il regime autoritario cinese, che sa come usare la tecnologia, ha reagito sullo stesso terreno: «Si temeva un altro massacro come sulla Tienanmen, ma ai governanti cinesi è bastato inondare il web di messaggi concepiti per disinnescare quelli dei contestatori. A volte la reazione poliziesca si è vista anche nel mondo fisico: dopo la pubblicazione di un fotomontaggio nel quale Xi Jinping era ritratto sotto un grande ombrello giallo, il presidente cinese andò in visita in una Macao dalla quale erano stati fatti sparire tutti gli ombrelli, nel timore di un loro uso politico».
Proviamo a tirare le fila: il web, nato per essere un’autostrada dell’informazione scientifica (il suo creatore, Tim Berners Lee, lavorava al Cern e voleva mettere in rete gli scienziati), è diventato altro: il luogo nel quale la gente si esprime e socializza, anche con il frivolo e l’effimero. Così il consenso sociale che era stato creato dalle culture egemoni delle varie epoche – da ultima quella liberale dei mainstream media occidentali – è stato spazzato via da qualcosa che l’autrice, ispirandosi all’analisi di Penny Andrews dell’università di Leeds, definisce non più consenso ma «dissenso digitale che può trasformarsi in rabbia che rimbomba, frammentata, in cento “camere dell’eco”». I meme costituiscono una cultura caratterizzata da stabilità intrinseca: chi ripete il messaggio finisce anche per trasformarlo e, comunque, se vuoi spiazzare la censura, devi cambiare registro di continuo. Una realtà per nulla entusiasmante ma imprescindibile: secondo uno studio appena pubblicato, giovani e millennial(sostanzialmente i trentenni) sanno interpretare gli emoji molto meglio degli indicatori della temperatura dell’olio o della pressione dei pneumatici disseminati sul cruscotto della loro auto.