Corriere della Sera, 20 gennaio 2019
Intervista a Ivano Fossati
Ivano Fossati è uno dei più importanti autori di musica del nostro tempo. Ha scritto quello che, per me, è uno dei testi più belli della storia della canzone d’autore: «C’è tempo». Il brano finisce con una frase della quale, nella sua casa di Genova, parleremo a lungo: «Io dico che c’era un tempo sognato/ che bisognava sognare».
Fossati ha scritto «Notte in Italia», «Cara democrazia», «La mia banda suona il rock» «Panama» e poi, per Patty Pravo «Pensiero stupendo», per Loredana Bertè «Dedicato», per Mia Martini «E non finisce mica il cielo» e la magnifica «Le notti di maggio» per Fiorella Mannoia. Tutte donne, universo centrale nel suo lavoro creativo.
I suoi testi, ricerca linguistica applicata a sentimenti e storia, si sposano con una ricca cultura musicale che attinge ai suoni del mondo, al jazz, alla tradizione operistica. È musica colta e popolare. Un genere raro. Un giorno di qualche anno fa Fossati ha detto basta ai concerti, alle promozioni, alle apparizioni tv.
Basta, una parola corta e difficile da pronunciare.
C’è un momento preciso nel quale hai deciso «basta, smetto»?
«Credo di aver deciso trent’anni prima di annunciarlo. Ha pesato il mondo dal quale provengo. Mio padre è stato mio nonno. Io il padre non l’ho avuto, è andato via quando avevo un anno. Via, lontano. Lontano da me, da noi. Mio nonno lavorava in una conceria, lavoro duro. Mi ha fatto capire che non era giusto dedicare tutta la vita a quello che si faceva, anche se era una cosa bella. Nella sua idea un terzo della vita doveva essere libero, dedicato a quello che tu sogni di fare, a quello che ti regala serenità, felicità. Nel suo caso – era un uomo semplice, un operaio di fabbrica – era andare a caccia, a passeggiare sui monti».
E quali sono state le tue passeggiate in montagna?
«Alzare lo sguardo. Quando ho preso la decisione molti dicevano: “Ma sei sicuro di quello che stai per fare?”. L’unica cosa che mi è accaduta è stata poter alzare lo sguardo. Una cosa bella. Finalmente vedere le cose non più in relazione al mio lavoro. Non più guardare questo mazzo di fiori pensando di raccontarlo. Non più guardare una strada di New York per raccontarla. Quando alzi lo sguardo finalmente le cose ti appaiono più chiare. Per me questa scelta aveva a che fare con la dignità. Così mio nonno me l’ha trasmessa. L’ho capito quando sono stato più grande, tenere una parte di vita per guardare, per te stesso. Attiene alla dignità di un individuo».
C’è qualcosa che ti manca?
«Contrariamente a quello che si può pensare, mi verrebbe da rispondere di no. Le due parti del mio mestiere che mi piacciono di più le ho tenute: scrivere canzoni, essere un autore, e poi passare più tempo possibile dentro uno studio di registrazione. Non ho più l’esposizione di me stesso al pubblico. Non c’è più “l’ostensione” in teatro. Non ci sono più la fatica, i chilometri, la tensione. Anche un mestiere come il mio, sembra sacrilego dirlo, nasconde una fortissima componente di routine».
Forse «c’è un tempo», non solo nella musica, in tutta la creatività, in cui si dona il meglio, poi si comincia ad amministrare se stessi. Ha pesato questo?
«Sì, ha pesato. Comincia una fase nella quale rappresenti solo te stesso: passi dalla rappresentazione delle tue idee a quella del tuo passato. E questo si traduce in operazioni, operazioncine, duetti. So che c’è un momento splendente nella nostra carriera, nella nostra vita. Per me è iniziato quando avevo venticinque anni e ho cominciato a capire cosa volevo essere. Negli ultimi due anni ho tenuto dei laboratori all’università di Genova. Una delle prime cose che ho detto ai ragazzi è stata: “Gli artisti è importante che sappiano cosa vogliono essere”».
Ti sembra che il flusso su YouTube o Spotify abbia avuto un effetto sul contenuto e sulla fruizione della musica?
«Siamo passati dalla centralità della musica al fatto che sia diventata il carburante per i cellulari. Si ascoltavano le cose con attenzione, si discutevano, si imparava a sognare o a ragionare. Esattamente come se si leggesse un libro. Non c’era differenza tra immergersi nella letteratura o nella musica».
Di Salinger e di Battisti che pensi? Due scelte molto radicali...
«Nei miei sogni più segreti pensavo: “Vorrei che la gente conoscesse le mie canzoni e non la mia faccia”. Quella poca notorietà che ho la porto con fatica, preferirei essere una faccia anonima. Però mi piacerebbe molto che la gente riconoscesse le mie canzoni. Una forma di egoismo, forse. Ecco perché mi piace Salinger, la sua scelta di parlare solo con le sue parole. Battisti per me è il più grande in assoluto. Sono sempre più ammirato dal suo modo di fare musica. C’è un dogma, un diktat che viene dalle radio: mai interrompere il ritmo. Le canzoni di Battisti sono tutte pause, come la musica classica. Lui aveva un’intuizione meravigliosa melodica e poi si fermava, cambiava ritmo. “Mi ritorni in mente” si ferma non so quante volte, come “Fiori rosa fiori di pesco”. Battisti è più avanti di adesso, è più avanti di quello che consideriamo oggi il meglio della musica».
Quanto ha contato il dubbio nella tua vita artistica e nella tua vita?
«L’ho fatto contare. Non mi fido delle certezze, non mi fido del: “Io so come fare”. Qualcuno mi ha detto una volta: “Nessuno deve dirmi quello che devo fare”. Una frase che mi è rimasta piantata nel cervello. Ho cercato di stare lontano da certezze preordinate, assolute. Dalla presunzione di avere sempre ragione».
Ma il dubbio è parente della libertà? Ci può essere libertà senza dubbio?
«Il dubbio è la libertà di poter dire “ho cambiato idea, credevo che una certa cosa fosse così, ma sbagliavo”. La vita ti cambia, per fortuna. Io non credo di ragionare a sessantasette anni come a trenta. Se fosse così, sarei spaventato. Sono cambiate tante cose in me, e questo dipende dall’esperienza, dai dubbi, dalle letture e dalle persone che hai incontrato, da ciò che accade. E dipende da una certa dolcezza della vita, che impari a tenerti vicina».
A questo proposito: quale era «il tempo sognato che dovevamo sognare»?
Non mi piace l’ossessione di essere attuali, come se questa parola fosse la salvezza di tutto: l’arte di ringiovanire,
di ringiovanire il pensiero,
il fisico, il linguaggio
«Quello che ci aspettiamo, ci aspettavamo e che magari ci è sfuggito. Ma che era doveroso tenere con noi. Cioè c’è una parte di desideri che tendiamo a tenere vicini come se fossero veri e raggiungibili. Anche se, in fondo, sappiamo che non saranno realizzabili e forse non sono nemmeno realistici. Anche se sentiamo che ci stanno sfuggendo. Io ne ho avuti tanti. Cose che sembravano afferrabili ne abbiamo viste tante: politica, cambiamenti, persone. Però questo serbatoio di speranze è qualcosa che tieni vicino a te. Come un bicchiere d’acqua che, prima o poi, potrai bere. Il tempo sognato credo sia questo».
Che cosa non ti piace del tempo che stiamo vivendo?
«La velocità a tutti i costi. L’ossessione di essere attuali, come se questa parola fosse la salvezza di tutto: l’arte di ringiovanire, di ringiovanire il pensiero, il fisico, il linguaggio. Io sono contento di essermi formato nel mio tempo. Il mio tempo era quando avevo venti, trenta anni. È lì, in quella fila di vinili. Io non lo ripudio, sto bene là in mezzo. Poi tutto quello che posso imparare, rispetto alla modernità, cerco di apprenderlo. Non mi piace millantare un senso di iper attualità che poi vedo, in realtà, non appartenere a nessuno».
Millantare la contemporaneità...
«Millantare la contemporaneità. Secondo me non appartiene a nessuno, se non a quelli di vent’anni. Questo tempo è loro».
Nella tua musica e nei tuoi testi c’è sempre il mare. Il mare anche come luogo sociale, come inclusione, come apertura. Tema di fronte a noi in questi giorni, in queste ore...
«In origine c’è perché sono nato a Genova. Quando ero ragazzo le due cose di cui ho sentito parlare di più sono stati i viaggi e la guerra. Mia mamma e mio nonno mi hanno raccontato la guerra come se l’avessi fatta anche io. E poi tutti i parenti, gli zii, erano naviganti e da subito mi hanno trasmesso l’idea che fosse bello conoscere gli altri. Un mio zio, si chiamava Ettore, faceva il fuochista. Quando ero piccolo lui era già anziano e in pensione. Aveva viaggiato tanto. Descriveva le persone – fossero scandinave o africane – così bene che te le faceva amare, ritenere indispensabili. Io guardavo la cartina per scoprire dove fossero quei luoghi mirabolanti. Ettore, il fuochista, mi trasmetteva l’idea di quanto fosse prezioso poter parlare con persone così lontane. Non così diverse, così lontane».
I migranti di oggi sono fratelli degli «Italiani d’Argentina»?
«Sì. Noi eravamo i migranti del novecento. Siamo stati accolti nello stesso modo, abbiamo fatto le stesse cose. Siamo stati, nello stesso tempo, buoni lavoratori e inventori di mafie. È una storia che si ripete. E credo che nessun popolo come il nostro dovrebbe avere memoria di questo, di cosa vuol dire andare a casa degli altri cercando lavoro. Noi abbiamo le fotografie degli italiani con le valigie di cartone, affamati. Le famiglie contadine che non riuscivano a mantenersi qui e andavano in Sudamerica o negli Stati Uniti sono le nostre famiglie».
Nella tua musica e nella tua poetica c’è sempre un’epica che illumina i sentimenti, il senso della storia, il racconto della cronaca. Da dove nasce?
«Il fatto che tu mi dica così mi fa venire in mente una cosa. Alle scuole medie ero innamorato dei miti greci. Ho avuto un’insegnante che non dimenticherò mai. Riusciva a far apparire l’Iliade come un film. Per noi, quaranta asini calzati e vestiti, le lezioni della professoressa Rolla erano come andare al cinema. Ma non il cinemino, il cinemascope. E poi questo senso dell’epica l’ho ritrovato nel cinema western. Nel western americano e tantissimo in quello italiano, penso ai film di Sergio Leone. Lì c’è un senso epico veramente paragonabile al mito greco. Io sono stato sempre innamorato di quei tempi di racconto, di quegli spazi».
«Cara democrazia» è una canzone terribilmente attuale in questo momento. Hai scritto «Cara democrazia, ritorna a casa che non è tardi». Ora è tardi?
«Democrazia dovrebbe essere una parola ermetica, non si dovrebbe poter pensare di smantellarla. Il rischio c’è sempre. Quando Trump va a caccia dei fondi per fare l’ultimo pezzo di muro, qualcosa muore. Innalzi un muro e crolla una parte di democrazia, di sentimento umano, democratico. Le azioni degli uomini, specialmente di che comanda, rischiano di far sgretolare qualche mattone della costruzione democratica. Però io spero e credo che non sia tardi».
Hai scritto sempre musica molto apprezzata dalle donne. Quanto ha pesato il fatto di essere cresciuto in un contesto femminile? Senza padre e con una madre in ruolo centrale?
«Di sicuro ha pesato. Mia mamma è un personaggio quasi letterario. Adesso ha novantadue anni ed è una delle persone più aperte che abbia mai conosciuto. Quando avevo diciotto anni lei ascoltava la PFM, era la mamma che uno può sperare di avere. Essere in confidenza con mia madre mi ha insegnato ad ascoltare le donne. Io le ho sempre ascoltate. Una discussione con le donne mi diverte e mi interessa. Quando mi sono trovato in tavolate di soli uomini mi sono sentito addormentare».
Qual è l’ultima canzone che hai cantato in pubblico e quella a cui sei più affezionato?
«”Dolce acqua”, una delle prime canzoni che ho composto. È stato commovente. Quella alla quale sono più gelosamente attaccato è “C’è tempo”».
C’è una canzone della quale io non posso non domandarti. «La canzone popolare», che fu usata dall’Ulivo nella campagna elettorale del 1996.
«Puoi immaginarti quante volte mi hanno chiesto: “Ma ti sei pentito?” Cento volte me lo hanno chiesto e cento volte ho risposto no. In primo luogo perché non ci si pente di una cosa del genere. Poi perché le cose sono figlie di un momento preciso e sono scelte di quel momento. Oggi non avrebbe senso, perché i partiti politici di tutto hanno bisogno, tranne che di una musica. Penso che abbiano da affrontare prima altre esigenze, altri bisogni. La domanda era anche: «Lo rifaresti? Te l’hanno più chiesto?». «No, non lo rifarei, l’ho fatto una volta». E comunque, quella volta, portò fortuna...»
Come vedi il futuro?
«Lo vedo in quel modo: tenermi vicine le cose. Non voglio rinunciare. Non mi sfiora neanche la disillusione o il pensiero che le cose non siano più meritevoli di essere vissute. No, io mi voglio tenere quel bicchier d’acqua vicino. Tante cose evolvono male, ma tante altre bene. Credo nei ragazzi di oggi. Molti di loro cercano, vogliono sapere, capire, non vedono l’ora di essere aiutati a camminare da soli. Il futuro c’è, sono loro. Non so bene cosa combineranno, ma se mi devo regolare sul loro sguardo e su quello che dicono, divento ottimista. Posso credere che il futuro ci riserverà molte cose belle».