Corriere della Sera, 20 gennaio 2019
La lite di Zuckerberg con i nativi delle Hawaii
Da una parte 138 micro-proprietari, dall’altra due (uno si chiama Mark Zuckerberg). Oggetto del contendere, quattro pezzi di paradiso alle Hawaii, sulla costa nord dell’isola di Kauai, vicino a Pilaa Beach, la cui proprietà negli ultimi 100 anni è passata tranquillamente da una generazione all’altra di nativi hawaiani. Nessuna contesa fino a quando, nel 2014, dalla Silicon Valley arriva mister Facebook e acquista per 100 milioni di dollari 700 acri sull’oceano, che Mark fa subito circondare con qualcosa che prima non c’era: un muro. Ora, dopo due anni di colpi di scena, si è arrivati al dunque: gli amici locali del signore dei social, che vuole preservare la natura, contro i peones della proprietà diffusa che non vogliono svendere il legame con la terra degli avi.
Tutto entra nel vivo alla vigilia del Natale 2016, quando un professore in pensione di Studi Hawaiani di nome Carlo Andrade, 72 anni, manda una lettera a decine di lontani parenti, informandoli che li citerà in giudizio per ottenere i diritti sulle loro fettine di paradiso, e diventare così l’unico proprietario degli appezzamenti lasciati in eredità dall’antenato Manuel Rapozo.
Nella lite familiare si inserisce fin da subito un potente vicino: a sostenere le spese legali del professore è la Northshore Kalo LLC, che a giudicare dal nome (kalo) ai nativi hawaiani appare come un’azienda produttrice di tuberi. Una legge controversa permette ad Andrade di chiedere che siano messi forzatamente in vendita gli appezzamenti altrui, anche se in quel momento il professore possiede nominalmente soltanto il 14% della terra, che pure meritoriamente ha curato (e su cui ha pagato le tasse) come forse nessun altro nel corso dei decenni. I suoi sostenitori, i vicini della Kalo LLC, a quel punto possiedono il 24,1% dei lotti in questione: il resto dei 2,3 acri è diviso tra una miriade di persone, oltre cento, gran parte delle quali possiedono percentuali minime dello zero virgola qualcosa. Alcuni non sanno neppure di avere titoli su prati e boschi a ridosso dell’oceano, altri invece ci hanno cresciuto i bambini e ci hanno lasciato il cuore. Alcune porzioni sono riconosciute dal diritto hawaiano come terre «kuleana», assegnate a contadini locali intorno alla metà dell’Ottocento con particolari sinecure (dai diritti di accesso a quelli di pesca). Un intreccio di consuetudini che spesso cozzano con la successiva giurisprudenza di impronta europea ereditata dagli Usa, a cui si aggiungono i meandri delle storie familiari: il primo proprietario, Manuel Rapozo, emigrò a Kauai nel 1982 dalle isole Azzorre, rinunciando alla sua cittadinanza portoghese e diventando cittadino del regno delle Hawaii. Morì nel 1928, lasciando ai sette figli la terra che poi si è via via spezzettata fra i discendenti.
Accade che i nativi, in origine, fossero migranti. E che sotto i nomi di aziende che appaiano locali si possano nascondere stranieri che non si occupano di tuberi ma di hi-tech. Nel gennaio 2017, racconta la ricostruzione delGuardian, si scopre che Kalo LLC non è un’azienda agricola ma una sigla riconducibile a Mark Zuckerberg e alla moglie Priscilla Chan. Si scopre che gli stessi miliardari della Silicon Valley hanno citato in giudizio i nativi micro-proprietari di lotti confinanti con la loro tenuta, per «costringerli» a vendere le rispettive briciole di terra. Accusato di «neocolonialismo», mister Facebook chiede scusa e ritira l’azione legale. In una lettera ai media, sostiene di voler lavorare in accordo con i locali per preservare la bellezza dei luoghi. Ma avverte che Andrade andrà avanti.
A fine 2018 un giudice stabilisce che la richiesta del professore è legittima. Nel frattempo Andrade ha aumentato la sua quota al 27% e Kalo al 44%. Un gruppo di irriducibili non accetta di vendere: aspettano di venire sconfitti quando i loro terreni saranno messi all’asta. Forti dello 0,45% della terra contesa, Alika Guerrero e sua mamma Jennie, che fa le pulizie in un hotel, non vogliono cedere: «La verità è che noi nativi siamo una macchia nel santuario di Zuckerberg».