Corriere della Sera, 20 gennaio 2019
I cattolici e la classe dirigente
Accade talvolta che una discussione pubblica sia molto più interessante per ciò che essa sottintende, per ciò che vi si scorge sottotraccia, che non per gli argomenti usati dai partecipanti. Tale è forse il dibattito che (nel centenario dell’ «Appello al Paese» di Luigi Sturzo, il padre del popolarismo) sta animando alcuni settori della Chiesa e ambienti ad essa collegati. Esprime il desiderio o la speranza (non ancora un progetto) di vedere rinascere, qui in Italia, un partito dei cattolici. Se ne comprendono le ragioni. Da un lato, una generale insoddisfazione, che accomuna molti cattolici (ma non solo loro), per la qualità della classe politica italiana nelle sue varie componenti. Dall’altro lato, il fatto che in Italia viga di nuovo il metodo elettorale proporzionale: nella lunga età dell’oro del (secondo) partito cattolico – la Democrazia cristiana – c’era, per l’appunto, il proporzionale. Perché non cogliere l’occasione?
Sia detto col massimo rispetto possibile: la discussione mi pare poco sensata. La politica dell’identità cattolica è fuori tempo massimo. Non si tiene conto della secolarizzazione: come è possibile ipotizzare che a chiese poco frequentate e a seminari vuoti possano corrispondere urne elettorali traboccanti di voti cattolici? Davvero avrebbe senso dare vita a un partito dei cattolici del 4, del 5 o persino dell’8 per cento?
Non sarebbe un modo, abbastanza autolesionista, di fare «pesare» ufficialmente, pubblicamente, la propria (ormai scarsa) forza politica? Si tenga per giunta conto del fatto che il tramonto della politica dell’identità cattolica qualche vantaggio ai cattolici lo ha comunque dato. Oggi un leader politico capace può attirare il consenso di cattolici e di non cattolici indifferentemente. Solo la sua qualità e le sue proposte contano. Il fatto che, eventualmente, egli sia un cattolico, di sicuro non impedirà a elettori non credenti di apprezzarlo e di sostenerlo.
Ciò premesso, il dibattito sul partito cattolico è interessante per ciò che sottintende. Vi ha accennato Ernesto Galli della Loggia ( Corriere, 18 gennaio) nella sua ricostruzione sul ruolo politico dei cattolici italiani. Il «sottinteso», il sottotraccia, riguarda il modo di formazione delle classi politiche in Italia. Con tutta evidenza, la scomparsa dei partiti politici storici dei primi anni novanta, ha fatto scomparire anche sedi e canali mediante i quali venivano «allevati», educati, i futuri politici. È da quel buco nero che sono schizzati fuori i tantissimi dilettanti allo sbaraglio che affollano la vita pubblica italiana, persino in posizioni apicali. C’è per lo meno un barlume di razionalità (ossia, se ne capiscono le ragioni), nel fatto che qualcuno abbia pensato: se non ci sono più i partiti storici a formare le classi politiche, perché non rivolgersi alle istituzioni ecclesiali? Con le loro tradizioni e la loro antica sapienza non mantengono forse una capacità di formazione di classi dirigenti che non è presente in altri luoghi? A parte il fatto che anche quelle istituzioni e le loro antiche capacità sembrano essersi alquanto deteriorate negli ultimi tempi, resta che, pur essendo comprensibile, questo ragionamento è fallace. Se quella strada venisse davvero percorsa verrebbero danneggiate in un colpo solo la democrazia italiana (colpita nella sua laicità) e la Chiesa (trascinata per i capelli dentro lotte partigiane).
Però l’esigenza che sta sottotraccia in quel dibattito permane. Come formare classi politiche di qualità? Poiché i partiti, così come (nel bene e nel male) li abbiamo conosciuti, non sono più ricostituibili nell’epoca dei social, che si può fare? Una strada (forse l’unica possibile, almeno sulla carta) ci sarebbe. Premetto che ci sono due pesanti controindicazioni. La prima è che gli eventuali buoni risultati potrebbero venir fuori solo nel medio-lungo termine. La seconda è che non sarà una strada praticabile fin quando le cosidette élite continueranno a fare spallucce, a voltarsi dall’altra parte, o a sbadigliare (come hanno sempre fatto), quando qualcuno solleva l’argomento.
Chi vuole avere in futuro élite politiche di valore deve ricostituire scuole, di ogni ordine e grado, di valore, deve reimpostare in chiave rigorosamente meritocratica il nostro sistema educativo. Attenzione, non si tratta di cadere nell’ingenuità di credere che ciò di per sé possa formare classi politiche capaci (questo è un pregiudizio intellettualistico che non appartiene a chi scrive). No, avere scuole di qualità comporta la formazione di una massa critica di «pubblico attento», indisponibile a perdonare ai politici strafalcioni e fesserie. Un folto pubblico attento, prodotto di scuole di qualità, non avrebbe mai permesso a politici di poco valore, ad esempio, di incoraggiare i no vax e altre correnti irrazionali (che cosa è successo e perché agli ulivi pugliesi attaccati dalla Xylella?) che rendono la vita quotidiana irrespirabile.
La selezione di classi politiche migliori può essere solo un sottoprodotto: il frutto della affermazione di un pubblico (minoritario ma comunque consistente) composto da persone rese esigenti grazie a un sistema di istruzione di qualità.
In tanti si strappano i capelli oggi perché la vita pubblica è affollata da mediocri. Ma se costoro non capiscono quanto abbia pesato e quanto pesi il deterioramento del sistema educativo, allora ciò significa che anch’essi sono dei mediocri. Non importa, francamente, se sono cattolici o non lo sono.