Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  gennaio 20 Domenica calendario

Le seconde vite di Alvaro Lojacono, rapitore di Moro

Lo chiamavano capitan «Zarro». Era il più bravo di tutti a fare i quiz. Assunto come collaboratore a Rete 3 della Rsi, la radio svizzera in lingua italiana, nel giro di poche settimane era diventato il conduttore del programma «Mezzogiorno di gioco». E se quel «Zarro» probabilmente derivava da una storpiatura del nome, di sicuro in quei giorni del 1988 il brigatista rosso Alvaro Lojacono aveva già cambiato cognome e cittadinanza. Per tutti era Alvaro Baragiola, come la madre. Un cittadino svizzero. «Un tipo brillante», ricordano i colleghi. Un uomo in fuga. 

La fuga 
Era tornato l’anno prima dal Brasile, o almeno così raccontava. Si era stabilito a Villa Orizzonte, la casa di famiglia in stile Belle Époque. Una villa nel comune di Croglio, quasi al confine italiano.
E fu proprio lì che andò in visita l’allora ministro socialista del governo ticinese Pietro Martinelli, suscitando le polemiche dell’opposizione. Perché in quei giorni le pendenze giudiziarie di Alvaro Lojacono erano già note, almeno in parte. Ma gli fu concessa comunque la cittadinanza svizzera. Stava iniziando la seconda vita di un assassino. 

Il passato sanguinario 
Secondo la giustizia italiana, Alvaro Lojacono Baragiola il 28 febbraio del 1975 fece parte del commando che lasciò a terra Mikis Mantakas, uno studente universitario greco freddato davanti alla sezione del Movimento sociale italiano nel quartiere Prati a Roma.
Sempre lui, prese parte all’omicidio del giudice Girolamo Tartaglione, il 10 ottobre del 1978. E ancora lui, assieme ad Alessio Casimirri, era sulla Fiat 128 che chiuse il corteo di morte in via Fani, durante il sequestro di Aldo Moro e la strage della scorta. Di questi tre fatti, soltanto uno lo ha raggiunto in Svizzera. 
«Aveva lavorato in radio fino al giorno prima, ogni tanto raccontava dei suo trascorsi, diceva di essere stato un simpatizzante delle Brigate Rosse», ricorda adesso un collega di allora. Baragiola è stato arrestato la sera del 9 giugno 1988 in una pizzeria di piazza Molino Nuovo, il quartiere popolare di Lugano. Il processo sul caso dell’assassinio del giudice Tartaglione è iniziato il 9 novembre 1989, l’unico di cui l’Italia abbia chiesto conto. 
«Durante il dibattimento, Baragiola ha sempre negato le sue responsabilità e respinto tutte le accuse» dice John Noseda, uno dei tre avvocati che compose il collegio difensivo. E poi aggiunge: «Ricordo che sollevammo molte questioni sull’attendibilità del pentito che lo accusava». Questa è sempre stata la linea. Ma intanto le condanne sono diventate definitive.

La condanna
In Italia quella per l’assassinio di Mantakas e quella per l’agguato di via Fani. E anche i giudici svizzeri, sulla base delle carte ricevute, hanno emesso una condanna a 17 anni di carcere per l’omicidio del giudice Tartaglione.  Alvaro Lojacono Baragiola ne sconta 11 nel penitenziario di Losanna (Cantone del Vuad), esce per buona condotta dopo essersi laureato. Quell’estate è in Corsica, in una casa della madre a Ile Rousse. Sarà l’ultimo tentativo della giustizia italiana. La segnalazione è precisa. Viene arrestato dalla gendarmerie perché deve scontare due condanne definitive, subito trasferito nel carcere di Bastia. L’Italia chiede l’estradizione: la Francia non la concederà. Le luci si spengono. Baragiola torna in Svizzera, si sposa, fa due figli, cambia cantone e inizia a lavorare come ricercatore laureato in Economia e Scienze Sociali per l’Università di Friburgo. 
Ma il suo nome è ricomparso adesso dopo il caso Battisti. C’è anche lui nell’elenco dei terroristi che sono riusciti a sottrarsi alla giustizia. Due giornalisti del sito «Ticino online» lo hanno trovato sull’elenco telefonico. È l’ufficio dell’università. «All’inizio Baragiola era infastidito», spiega il giornalista Salvatore Feo. «Ma poi, dopo un giorno, ci ha cercati e ci ha concesso l’intervista».  Sono parole che aggiungono poco. Non risponde su via Fani. E alla trasmissione Tv italiana «Le Iene», munite di telecamera nascosta, ha ripetuto le solite terribili frasi sulle vittime: «Nulla di personale. Erano qualcosa di simbolico e funzionale». 

Nessuna estradizione
L’Italia non ha mai chiesto l’estradizione alla Svizzera per le condanne non eseguite. L’avvocato di Baragiola è convinto che sia ormai troppo tardi. «Sono tutti fatti ampiamente prescritti per la nostra giustizia», dice John Noseda. L’articolo 25 della costituzione elvetica recita: «Le persone di cittadinanza svizzera non possono essere espulse dal Paese, possono essere estradate a un’autorità terza soltanto se vi acconsentono». Ecco perché sono così importanti gli anni 1988 e 1989, quelli in cui il brigatista conduceva un gioco a quiz alla radio e otteneva un nome nuovo.