Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  gennaio 20 Domenica calendario

Intervista a Carla Cohn

Oggi ha 92 anni e una storia gigantesca alle spalle. Prova ad accendersi una sigaretta. Si scusa per il fastidio che il fumo può arrecare: « Non sono mai scesa sotto un pacchetto», dice, quasi a voler giustificare il parossismo di una vecchia abitudine. C’è ordine e tristezza nel salottino dove mi ha fatto accomodare. Un pittore simil Grosz campeggia su di una parete: il quadro raffigura tre facce grottesche. Sembra alludere a Weimar o Berlino prima della catastrofe. Un po’ più in basso, nello scaffale tra i vecchi libri, una targa con incisa la dedica: a Carla Cohn, deportata a Terezìn: «Quello fu solo il penultimo atto di una storia che mai avrei immaginato: dopo Terezìn arrivò Auschwitz, con il penetrante odore della morte», ricorda disegnando una leggera smorfia che il fumo attenua.
Dove è nata?
«A Berlino, come mio padre: avvocato e musicista. Mia madre era di Pietroburgo, come mia nonna. La classica famiglia ebraica. Benestante e orgogliosa di essere tedesca. Papà fiero conservava la Croce di Ferro guadagnata durante la prima guerra mondiale. Non servì quando vennero i giorni più duri».
Quei giorni come si annunciarono per lei?
«Il primo ricordo risale al 1933, subito dopo la vittoria di Hitler alle elezioni. Si avvertiva una frenesia strana, sinistra. Gente che gridava in modo sguaiato per quello che era accaduto: i nazional-socialisti avevano vinto».
Suo padre come reagì?
«Non se ne preoccupò, almeno in apparenza. Era un uomo della legge. Aveva servito la patria. Cosa doveva temere? In realtà vidi le sue spalle ingobbirsi. Il disegno della schiena parlava al posto delle parole. Poi arrivarono le Olimpiadi del 1936. Il fasto, l’entusiasmo, il gigantismo. Come altre ragazze carine della scuola avrei dovuto partecipare alle celebrazioni. Due giorni prima mi dissero che ero esclusa. Non compresi il senso di quell’ordine».
Quando se ne rese conto?
«Nella viltà quotidiana: le biglie che mi venivano sottratte, gli insegnanti che avevano cambiato atteggiamento, i padri che obbligavano i figli a tenermi lontana. Un signore ammonì che chiunque portasse il nome Cohn non doveva avere nulla a che fare con sua figlia. Poi tolsero a mio padre lo studio in cui esercitava, ci confiscarono il danaro e altri beni, ci obbligarono ad andare via da casa. Era il 1938, di lì a poco cominciarono le persecuzioni: sinagoghe e negozi di ebrei vennero bruciati. Nel 1941, in un crescendo di soprusi, fummo trasportati nel campo modello di Terezìn».
Perché modello?
«Perché veniva considerato un ghetto per privilegiati. Mi viene da ridere al solo pensiero. La propaganda nazista, con Goebbels in testa, cercò di far sembrare i campi come luoghi dove si viveva bene. Si voleva convincere la stampa straniera che tutto andava per il meglio. Il meglio fu la messa a punto nel 1942 della " soluzione finale". Terezìn divenne il luogo di transito per le camere a gas».
Lei finì ad Auschwitz?
«Con tutta la famiglia: nell’ottobre del 1943. Il primo giorno ci allinearono davanti a un ufficiale vestito di cuoio nero. Seppi in seguito che era il dottor Mengele».
Qual era il suo compito?
«Decideva chi fosse abile al lavoro e chi sarebbe stato eliminato. Fui considerata inabile e destinata alla "doccia". Fu un soldato delle Ss a tirarmi fuori dalla fila dei condannati e a salvarmi. Non so perché l’abbia fatto. Forse uno scambio di persona. Non riesco ancora a credere a quel colpo di fortuna».

La sua famiglia?
«Fui l’unica sopravvissuta»


Si dice che una delle reazioni psicologiche del sopravvissuto è il senso di colpa. Fu così anche per lei?
«Per più di 40 anni non ho aperto bocca. Non ho raccontato quasi a nessuno cosa mi era accaduto».
Perché?
«Pensavo di non essere creduta e poi c’è un’altra cosa: quando andai in Palestina, molti ebrei ci vedevano come dei "colpevoli"».
In che senso, mi scusi?
«Ci accusarono di non aver attuato nessuna resistenza, di esserci ribellati. Oltre che ingiusto, non era vero. Come potevano dire una cosa del genere? E allora la rivolta nel ghetto di Varsavia e gli altri tentativi di ribellione che cos’erano? Avevo la libertà ma non sapevo che farmene».
Per questo emigrò in America?
«Andai prima in Italia in attesa di trasferirmi in Palestina, dove sarei restata per 9 mesi. In Italia, alla fine del 1945, sposai Japs. Non fu un matrimonio d’amore, ma il solo modo per legalizzare la mia posizione. Avevo solo documenti provvisori. Facemmo perfino un viaggio di nozze a Roma. L’anno dopo partimmo per Tel Aviv».
Perché non si stabilì in Israele?
«Non ero religiosa, non mi piacevano i kibbutz e soprattutto ero a pezzi psicologicamente. Alcuni parenti vivevano negli Stati Uniti. Perciò tornai in Italia e con Japs attendemmo quasi due anni per ottenere il visto. Ci imbarcammo sulla Queen Mary il 27 febbraio 1948, destinazione New York. Lì ci separammo. Non c’era niente che ci univa. Lui se ne andò alla ricerca del fratello. Mi sistemai a Long Island da una vecchia coppia di zii, senza figli. La cosa più straordinaria fu allora la scoperta del supermercato».
Che cosa la stupì?
«Per una ragazza che aveva attraversato l’inferno fu un’esperienza stordente. Restai ipnotizzata davanti a un’esposizione di ananas. Poi cominciai a ridere sotto le occhiate severe degli zii. Quel frutto mi riportava all’infanzia, quando a tavola la domestica ci serviva l’ananas in scatola. L’America mi sembrò un mondo sicuro».
Cosa faceva?
«Come aiuto infermiera lavorai a Brooklyn in un istituto per anziani. Nel tempo libero cercavo di perfezionare la lingua. Poi cominciai a frequentare Henry, un ragazzo che avevo conosciuto a Berlino, quando ancora si chiamava Heinz Bloch. Studiava come direttore d’orchestra a Tanglewood. Il suo maestro era Max Rudolf. Mi innamorai. Ma quando restai incinta la sola cosa che farfugliò fu: Ora chissà come reagirà la mamma. Ero confusa, delusa, furiosa. Oltretutto, c’era il vincolo matrimoniale con Japs che dovevo sciogliere. Mi consigliarono di recarmi nello stato del Nevada, dove era facile divorziare. Solo che avrei dovuto dimostrare una permanenza di almeno sei settimane».
Riuscì a farlo?
«Giunsi a Reno con gli ultimi dollari. Trovai un lavoro in una casa da gioco».
Che genere di lavoro?
«Dovevo fare la "comparsa". Per cinque dollari al giorno giravo tra i tavoli puntando le fiches che mi erano state messe a disposizione. Incoraggiavo i giocatori. In poco tempo imparai a riconoscere quanto infruttuosi sono certi sogni di ricchezza. Comunque ottenni il divorzio. E sposai Henry».
E a quel punto?
«A New York cercai lavoro nell’ambito medico. Fui assistente di un dottore ungherese esperto di inseminazione artificiale, poi di un noto otorinolaringoiatra e di un neurochirurgo. Infine ci fu l’incontro professionale che avrebbe cambiato la mia vita».
Con chi?
«Con il dottor Max Schur che a Vienna era stato medico personale di Freud e lo aveva seguito a Londra nel 1938. Nel settembre dell’anno dopo Freud morì e Schur decise di trasferirsi con la famiglia a New York, dove lavorò come internista in un ospedale. Fu così che lo conobbi e che lo assistetti nel lavoro ospedaliero e in quello editoriale. Max era anche uno stimato analista, che aveva deciso di scrivere un libro sul suo rapporto con Freud. Una sera, mentre correggevamo le bozze del libro, mi parlò del "patto della morte"».
Un patto tra chi?
«Tra lui e Freud. Prima che diventasse suo medico, Freud gli confidò che cercava qualcuno che potesse aiutarlo a morire qualora la malattia gli avesse offuscato la mente. Sapeva che il cancro alla mascella, nonostante le cure, non gli avrebbe dato scampo. E infatti Schur mi raccontò dell’iniezione letale di morfina che liberò Freud dall’agonia».
Che ne era del suo passato, della sua memoria?
«Per lungo tempo cercai di seppellire quell’esperienza così traumatica. Ma i traumi non si lasciano governare e men che meno cancellare. Così un giorno raccontai al dottor Schur cosa mi era accaduto. Parlai della mia depressione e anche del matrimonio con Henry che nel frattempo era andato a pezzi. Mi sentivo vuota. Mi consigliò di consultare una coppia di psicoanalisti suoi amici: Ernst e Marianne Kris. A quel tempo Marianne era l’analista di Marylin Monroe. Mi sarebbe piaciuto incontrare lei. Invece mi toccò Ernst».
Sospetto che non fu un grande incontro.
«Mi disse che l’analisi non avrebbe risolto nulla. Consigliò l’elettroshock. Scappai di corsa. Ma avevo preso la decisione di frugare a fondo tra i miei sentimenti irrisolti. Entrai in terapia con il dottor Kurt Adler. Era il figlio di Alfred Adler, noto per essersi liberato dall’ortodossia freudiana. Il figlio seguiva le teorie del padre. Mi trovai bene e per quattro anni progredii nell’analisi».
Sconfisse il trauma?
«No, ma lo tenevo sotto controllo. Adler mi consigliò di iscrivermi all’università a un corso di psicologia. Cosa che riuscii a ottenere. Non sapendo allora che mi sarei specializzata in psicologia dell’infanzia».
Il suo rapporto con Schur?
«Si era chiuso. Smise di svolgere il lavoro di internista per dedicarsi interamente all’analisi. Restammo amici. Sia lui che la moglie Helen sono stati fondamentali. Quanto a me cambiai lavoro. Per un certo periodo di tempo fui al servizio di Helena Rubinstein. Una donna prepotente e avara. Molto diversa da come la sua immagine veniva propagata grazie ai cosmetici. L’avevo conosciuta nel periodo in cui era in cura da Schur. Dovevo farle iniezioni di insulina. Oltre che da infermiera le feci da segretaria. Viaggiai con lei in Europa: Londra, Parigi, Roma, Capri. Ben presto mi stancai di quella vita. Ad accelerare la conclusione di quel rapporto fu l’innamoramento per un medico di Boston: Tom Robitscher, di origini praghesi. Raccontai la mia storia con Tom ad Adler e lui sentenziò che ero guarita. Considerava conclusa la terapia. Mi sentii tradita».
Perché?
«Non stavo affatto bene. Implorai di continuare l’analisi. Ma non ci fu verso. Sposai Tom pensando che il matrimonio avrebbe contribuito a darmi quella serenità che non avevo mai avuto. Non fu così. Nei primi anni Cinquanta finimmo entrambi sulla lista nera del maccartismo. Sua madre, Magdalena Robitscher, era una fervente comunista. Aveva seguito, unica donna occidentale, Mao Zedong durante gli anni della "Lunga marcia". Evidentemente quel fatto arrivò alle orecchie dell’Fbi. Alla fine ci salvammo. Mi separai da Tom e cominciai a lavorare seriamente per un centro di psichiatria per bambini. Per anni mi sono occupata di autismo infantile. Quando nel 1967 chiusero l’Istituto decisi che non avevo più nulla che mi tratteneva in America. Ero sola. Scelsi di tornare in Italia, a Roma, che avevo intensamente amato durante il mio primo viaggio di nozze.
Come sono stati gli anni italiani?
«Mi sono trovata finalmente bene. Ripresi l’analisi portandola questa volta a conclusione».
Aveva riunito le sue due parti divise?
«I lunghi anni di introspezione e il lavoro svolto sul mondo dei bambini mi hanno aiutata a riannodare alcuni fili. Ma non sono così sicura di essere saldamente risolta. Mi viene in mente Bruno Bettelheim, di cui avevo letto e apprezzato i libri sull’infanzia autistica. Fu una delusione conoscerlo e frequentarlo. Ma poi capii che ancora si portava dentro l’esperienza terribile dei campi. Scoprii un uomo autoritario, niente affatto empatico. A lungo ho dubitato della mia esistenza, perciò potevo pensare che le reazioni di Bettelheim fossero il frutto di un trauma incancellabile. Di un fantasma che aveva preso il suo posto. Chi ero io per poter giudicare serenamente quell’uomo? Perfino il suo suicidio era il sigillo di una sofferenza talmente grande da non poter essere detta. Né commentata».
Intende dire che è ancora esposta alla fragilità tremenda del suo passato?
«Credo che la sola cosa che oggi vorrei è dimenticare. Ho un’età in cui tutto si allontana. La prima volta che piansi veramente fu a Roma. In quel lontano 1975 mi sciolsi in lacrime davanti al mio analista. Ero in grado finalmente di affrontare la vergogna e il senso di colpa. Elaborare la morte dei miei familiari. Poco tempo dopo tornai in Israele e mi riconciliai con il paese che avevo lasciato con tanto risentimento. Nella Sala dei Nomi del museo della Shoah scrissi le identità dei miei cari. Le date della loro nascita e della loro morte. In quel cimitero di carta diedi sepoltura alla mia famiglia. Quel gesto ha reso meno insopportabile il peso della memoria».