Robinson, 20 gennaio 2019
Cresciuti a pane e Bur
Sarà stato il 1973, o il 1974 e in Galleria, a Milano, al piano sotterraneo della storica libreria Rizzoli troneggiava un vasto espositore. Allineava, come piastrelle su un muro, volumetti in quantità. Copertine grigie, quasi da sembrare sporche e però austere; caratteri Bodoni: “Emilio Zola, Teresa Raquin”,“Guglielmo Shakespeare, Otello, Il Moro di Venezia”, “Gustavo Flaubert, La signora Bovary”.
L’assieme una specie di reperto, testimonianza di una civiltà del passato recente, e il suo aspetto aveva un vago che di ammonitorio. Erano giacenze della vecchia Bur, che nel 1972 aveva interrotto la sua prima serie, storica e anzi gloriosa, e si apprestava a ritornare in commercio in forma rinnovata.
La sua storia ha avuto inizio quando l’anno era il 1949, il mese era gennaio, il luogo era Milano, il nome era Bur e stava (e ancora sta) per Biblioteca Universale Rizzoli. Poco più grandi di un taccuino, i volumi avevano un prezzo calcolato secondo un sistema modulare: costavano come una rivista, lire 50 (poco meno di un euro odierno) ogni cento pagine. Il primo pubblicato, I Promessi Sposi, portava il numero d’ordine “1- 6” perché contava 580 pagine e quindi era un “volume sestuplo”. Prezzo: “lire 300” (cinque euro e mezzo); i libri allora costavano almeno 4-500 lire. “Anche ai meno abbienti”: così si inorgogliva la nota di presentazione della collana, stampata alla fine di ogni volume. Manzoni, Zola, Wilde, Foscolo, Prévost, Leopardi, Shakespeare... Magari adesso può sembrare cosa da poco: all’epoca fu un big bang. “Quei libri umili, grigi, un poco degradati erano la grappa quotidiana di un giovane alcolizzato” ha scritto Giorgio Manganelli e parlava di sé.
Ora pensiamo a quanto spazio occupano cinquecento libri di medio formato. Dovrebbero riempire uno scaffale composto da dieci mensole larghe novanta centimetri l’una, all’incirca. Cinquecento sono tanti o pochi, per una biblioteca domestica? È cosa su cui si può discutere. Nel suo recente breve saggio sui conflitti politici e sociali contemporanei (su Repubblica dell’ 11 gennaio) Alessandro Baricco ha stabilito nel possesso di cinquecento libri il parametro forse più bizzarro fra quelli che per lui determinano l’appartenenza a una delle élite che oggi suscitano il rancore popolare. È un’altra cosa su cui sarebbe possibile discutere. Il parametro è bizzarro più di ogni altro perché, come al suo estensore certo non sfugge, è più facile che quelle dieci mensole ingombrino modesti alloggi di insegnanti e precari di professioni colte (a discapito di altre pur utili dotazioni domestiche) piuttosto che essere sfoggiate nei locali vanamente spaziosi abitati da chi qualche egemonia la esercita davvero. Né con questo si intende escludere che Baricco abbia ragione; però non è questa la sede per parlarne. Qui il punto è che se impiegati a reddito medio-basso possono oggi permettersi l’acquisto di quei volumi (e guadagnarsi così l’ingresso nella relativa élite) è anche perché esattamente settant’anni fa al cavalier Angelo Rizzoli riuscì di estendere i suoi interessi dall’editoria periodica alla libraria, realizzando il progetto della Bur. A proporglielo era stato Luigi Rusca, già stretto collaboratore di Arnoldo Mondadori e dirigente dell’Eiar (gli vengono ascritti exploit come l’ideazione dei Gialli Mondadori e il cambiamento del nome da Eiar a Rai).
Dal punto di vista commerciale, l’operazione intuiva l’esistenza di una potenziale estensione del mercato librario in direzione di ceti che, finita la guerra, erano destinati all’emancipazione da miseria e ignoranza. Dal punto di vista culturale, invece, l’emancipazione riguardava il testo e la forma del libro. Nei fasti della sapienza tipografica italiana, da Aldo Manuzio in giù, la cosiddetta “veste editoriale” era stata quasi sempre correlata alla preziosità – reale o putativa – del testo. L’“opuscolo” era tale di aspetto e di contenuto: la carta andante, la copertina non rigida, la grafica non fronzuta si riservavano a testi di nullo valore, letteratura di colportage, umili scribacchiature, “pianete” volanti con oroscopi e motti sentenziosi. Come già i libretti d’opera del melodramma, fragili fascicoli scartabellati da appassionati di ogni ceto, ora anche i classici della letteratura facevano ingresso in ogni casa. Erano gli “economici”, i “tascabili”: dove la dignità del testo non veniva mortificata dalla programmatica modestia della veste: anzi, era il testo a conferire pregio a un prodotto editoriale dignitoso ma certo dimesso. Un Nicola Gogol tradotto da Tommaso Landolfi di pagine 184 a lire cento? Altro che grappe, per l’allora ventisettenne Giorgio Manganelli...
Alla fine degli anni Sessanta il mondo si è poi colorato. La concorrenza degli Oscar, che andavano in edicola, moltiplicò le tirature e la Bur, che per prima aveva schiuso all’Italia il campo del libro economico e tascabile, venne riprogettata e divenne una collana di collane, a vocazione enciclopedica. Tutti gli editori o quasi, nel frattempo, erano entrati nella lizza del tascabile: alcuni riprendendo l’idea “universalista” ( oggi non possiamo più immaginarci quanto fosse forte allora il fascino dell’universale), per cui Feltrinelli rilevò l’Universale Economica; altri battendo strade più ricercate, come fece Einaudi con i Centopagine diretti da Italo Calvino (solo nel 1989 sarebbero sorti i Tascabili Einaudi, inventati da Oreste del Buono). Gli anni Sessanta avevano fatto del libro un prodotto di larghissimo smercio e il medium più in sintonia con i cambiamenti sociali e di costume (assieme al cinema); lo avevano tolto dalla polvere delle sale lettura e lo avevano infilato nelle tasche, verso i treni, i tram, le spiagge, i parchi. Esaurito il boom, nell’era degli eBook alle collane dei tascabili sono poi rimaste sia la funzione di memoria permanente dei titoli migliori di ogni casa editrice, sia la funzione di campo di sperimentazione di generi e nuovi mercati.
La Bur oggi è diretta da Federica Magro ed è come una casa editrice a sé. A festeggiare il proprio venerando compleanno ha intanto prodotto un’agenda che raccoglie citazioni e perle d’archivio e si chiude con una poesia del poeta Pierluigi Cappello (1967- 2017), che proprio dalla Bur è stato rivelato al grande pubblico italiano: «Costruire una capanna / di sassi rami foglie / un cuore di parole / qui, lontani dal mondo / al centro delle cose, / nel punto più profondo».