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 2019  gennaio 20 Domenica calendario

Intervista a a Michael B. Jordan, l’attore nero che rincorre Tom Cruise

«Sono prima di tutto un black man, un nero: ma ciò che provo a rappresentare è universale». Michael B. Jordan è convinto che l’affermazione dei neri americani, e soprattutto di sé stesso, passi attraverso il business. È un attore di talento, in un anno ha tirato due ganci fenomenali: il cattivo Killmonger diBlack Panther e e il boxeur vendicatore di Creed II, ruoli che lo hanno messo in corsa per gli Oscar in film da grande incasso, ma questo per lui è poco. Il 31enne di Newark, New Jersey, non vuole solo cavalcare la Black Reinassance a Hollywood; lui è un passo avanti rispetto agli altri colleghi afroamericani finalmente protagonisti nei blockbuster. Produce film, serie tv e videogiochi, scopre talenti, fa accordi con Netflix, si prepara al debutto da regista, si accompagna a sponsor lussuosi. Vuole trasformare il momento d’oro in qualcosa di solido, creare lavoro e visibilità, costruire un immaginario mitologico per la comunità afroamericana. In questo senso è simbolico il suo Killmonger, il villain riluttante, abbandonato dalla ricca terra di Wakanda, orfano e povero, nei sobborghi di Oakland. Per prepararsi Jordan ha studiato l’eroe paterno, l’attivista giamaicano Marcus Garvey, ed esce dal film pronunciando la battuta migliore: “Lascia che io affondi nel mare dove i miei antenati si buttavano sapendo che la morte era meglio della schiavitù”. Michael B. Jordan — la B sta per Baraki, il nome swahili, la lingua dei Bantu africani, con cui la famiglia lo ha sempre chiamato — non vuole solo essere il nuovo Denzel Washington: vuole diventare una star globale alla Tom Cruise. Cotanta ambizione gli ha attirato l’ironia paternalistica di Washington (sul ragazzino che fa la voce grossa), mentre la popolarità da 7 milioni e mezzo di follower su Instagram regala qualche frutto avvelenato: vedi i commenti al vetriolo sulle foto ad Amalfi “con troppe ragazze bianche”. Sente la pressione ma va avanti. Rispetto a un anno fa, quando l’avevamo incontrato a Londra per Black Panther, è meno spensierato, più concentrato. A Madrid per Creed II (in sala il 24 gennaio), sfoggia un dolcevita vintage a righine, pescato dalla collezione di un suo amico (black) designer.
Cosa significa per lei tornare a “Creed” dopo “Black Panther”?
 È un film mio, un personaggio da introdurre al mondo e poi crescerci insieme. Qualcosa di simile a Rocky: è emozionante per me raccogliere l’eredità di Stallone. Il primo Creed è stato speciale, anche per il sostegno dei critici, e ha aiutato anche il successo di Black Panther».
Con Adonis Creed lei ha alcuni punti in comune, ad esempio il rapporto forte con la famiglia. Fino a poco tempo fa lei viveva con i suoi genitori.
«C’è un rapporto forte anche oggi, con la loro partecipazione assoluta nella vita della nostra comunità, i libri e i racconti di mio padre sulle figure che hanno fatto la nostra storia. Da mia madre ho imparato il rispetto e l’ammirazione per le donne e la voglia di fare film con un approccio femminista ai personaggi. Basti pensare a Tessa Thompson in Creed, alle colleghe-sorelle di Black Panther. Quando racconti qualcosa in cui credi il risultato è più credibile (Jordan ha raccolto tra i primi l’appello di Frances McDormand agli Oscar e firmato regole che riguardano l’inclusione delle donne nelle sue società, ndr). I miei genitori mi hanno insegnato a restare con i piedi per terra. Sono i miei mentori. Mi rendono migliore».
Creed in questo film si scontra anche con la falsa illusione del successo.
«Abbiamo parlato molto sul set: Adonis e io attraversiamo le stesse esperienze. Per anni vuoi disperatamente fama e successo pensando che ti renderanno felice e soddisfatto, poi capisci che non è sempre così. Io voglio lasciare qualcosa: ho creato una mia casa di produzione, voglio ispirare le generazioni future, essere un narratore responsabile in tv e nell’animazione. Voglio mostrare che ci sono ancora persone buone nel mondo. E ci provo, a essere generoso e onesto più che posso. Si è avverato il mio sogno e sto cercando di adattarmi alla nuova realtà. Sto crescendo».
Quanto ha contato l’incontro con Ryan Coogler, con cui ha girato “ Prossima fermata Fruitvale Station”, “Creed” e “Black Panther”?
«È mio fratello. Se uno di noi è in difficoltà chiama l’altro. Parliamo di tutto. È l’unico che riesce a capire ciò che sto vivendo. Siamo cresciuti in periferie simili, negli anni il rapporto si è cementato. Abbiamo un nuovo progetto, il biopic Wrong answer, il problema è far combaciare gli impegni».
Quanto è stato importante calarsi nei panni di Oscar Grant, il ragazzo ucciso, disarmato, da un poliziotto nella metro di Oakland nel 2009?
«Interpretarlo mi ha cambiato la vita. Ero arrabbiato, frustrato quando fu ucciso da chi invece era chiamato a proteggerlo. Girare Fruitvale è stato esprimere tutto questo. Ed è stata la mia grande occasione di giovane attore».
Lei ha cominciato a recitare da ragazzino.
«Non avevo il sogno di diventare attore. Ero con mia madre dal dottore e la centralinista le disse che secondo lei potevo fare il modello. Il giorno dopo finii a un’audizione. Iniziai a lavorare saltuariamente, trovai un agente leggendo un annuncio sul giornale. Poi mi presero a The Wire, e gli attori più adulti mi fecero capire che se avessi coltivato il mio talento potevo fare sul serio. Dopo il diploma mi sono trasferito a Los Angeles, ho recitato in Csi, Law& Order e altri. Ma io volevo fare un film. Ho imparato come funziona l’industria, ho studiato le carriere di Tom Cruise, di Denzel Washington, di Will Smith, di Brad Pitt.
Non volevo essere solo un attore, volevo creare intorno a me un ecosistema. Poi le cose sono arrivate: lavoro duro, karma, fede, lo chiami come vuole».
Il momento peggiore?
«C’è stato: volevo mollare e tornare nel New Jersey. È bizzarro perché a volte sei vicino a ciò che vuoi ma non te ne accorgi e magari rinunci perché è dura. Devi continuare a spingere, e accade qualcosa che cambia tutto. Per me è stato Red tails, prodotto da George Lucas: è arrivato quando non avevo più soldi. Pensavo: “Non posso restare a Los Angeles per più di un altro mese. Poi tornerò a casa e immaginerò una nuova vita”. E invece qualcosa è successo».