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 2019  gennaio 20 Domenica calendario

Il soccorritore di Alfredino sul caso in Spagna: «Troppa improvvisazione»

«Il dramma di Julen sembra un film che si ripete. Alfredino è una ferita mai chiusa. Ne parlai per la prima volta nel 1996. Neppure i miei amici più intimi sapevano che 15 anni prima avevo preso parte ai tentativi di salvataggio. Non ne parlo volentieri perché mi provoca sofferenza. L’impotenza di essere arrivato così vicino, ma di non aver potuto far nulla, la porterò per sempre con me». Tullio Bernabei nel giugno dell’81 aveva 22 anni.
Era il caposquadra degli speleologi del Soccorso Alpino del Lazio, arrivati in aiuto di Alfredo Rampi, detto Alfredino, il bimbo di sei anni caduto in un pozzo di 80 metri la sera del 10 giugno a Vermicino, vicino a Frascati. All’alba del primo giorno fu il primo uomo a calarsi a testa in giù nel pozzo per poi rimanere bloccato dalla maledetta tavoletta di legno che avevano calato nel primo tentativo di salvataggio e che era rimasta incastrata. Alfredino morì tre giorni dopo. Bernabei ora ha 60 anni, fa l’esploratore in giro per il mondo. Risponde a Repubblica con la voce malinconica, piena di dolore e rimpianto. La tragedia del piccolo Julen a Totalán gli sta facendo rivivere l’impotenza di quei giorni di 38 anni fa.
In Spagna stanno seguendo metodi diversi rispetto al 1981?
«Allora avevamo il vantaggio che l’entrata del pozzo avesse un diametro di 80 centimetri per poi restringersi a 28. Questa volta è diverso. Le speranze sono pochissime. L’ho capito sin dal primo giorno».
Perché?
«La gente non si rende conto di quanto sia piccolo un tubo di 25 centimetri. Tra la tragedia di Vermicino e Totalán ci sono analogie e differenze».
Le analogie?
«Il pozzo ha lo stesso diametro e in 38 anni i metodi non sono cambiati: il tentativo di scavare un tunnel parallelo e una galleria orizzontale. Anche il blocco roccioso trovato a metà è un ostacolo come la nostra tavoletta. Bisognerebbe capire chi lo ha provocato».
Che cosa intende? Ci potrebbero esser stati dei tentativi maldestri iniziali?
«In un pozzo così profondo, con le pareti non incamiciate, qualsiasi cosa può creare una frana. Potrebbe essere stato il bambino stesso. Non lo sappiamo. Mi sembra però che chi sta gestendo i soccorsi a Malaga non abbia alcuna memoria storica dell’esperienza di Vermicino».
Sarebbe stata utile?
«Sì, soprattutto all’inizio. Perché mi sembra che abbiano fatto i soliti tentativi di vedere, capire e infilare. Una volta capito che lì c’era un bambino, prima di infilare anche un solo ago in quel pozzo, bisognava ragionare molto bene su che cosa fare».
Quali sono invece le differenze?
«Julen è in una grotta, perché quel pozzo è una grotta, ma più profonda: 110 metri contro gli 80 di Vermicino. È un bimbo piccolo, più fragile. Non ha mai comunicato. E questo non è un aspetto secondario».
Gli spagnoli stanno sbagliando qualcosa?
«È un luogo estremo. Un pozzo dalle dimensioni così profonde è un posto dove si può morire. Inutile girarci intorno. Hanno usato le nostre stesse procedure: provare a mettere cose nel pozzo, rimuovere la frana per raggiungerlo. Ma quando c’è stata una frana, non si può fare più niente. Non stanno sbagliando. L’unica opzione è scavare un tunnel parallelo. All’inizio forse, con un po’ di riflessione, si sarebbe potuto agire diversamente».
Che cosa avrebbe suggerito?
«Calare una sonda. Ce ne sono di diversi tipi. Ci sono tanti modi per evitare che si provochi una frana: una ruota, un carrello. Non si può agire in modo istintivo».
Che possibilità ha Julen?
«La grotta è umida e fredda. La temperatura sarà di massimo 10°C. È pressoché impossibile che ce la faccia. La temperatura corporea scende. Undici giorni a 10 gradi sono difficili da sopportare per un bambino di due anni. Spero solo che non soffra come Alfredino».