Il Sole 24 Ore, 20 gennaio 2019
La passione di Hitler per il cinema
Se si parla di «Hitler e il cinema», la mente corre subito a Charlie Chaplin che, nei panni del Grande dittatore (1940), volteggia sulle note del Lohengrin, facendo ruotare su un dito e poi rimbalzare sul sedere un mappamondo gonfiabile destinato a scoppiargli fra le mani. È la parodia politica più famosa della storia del cinema. Ma il rapporto tra il Führer e la settima arte indagato dallo storico Bill Niven nel saggio Hitler and Film è ben più complesso e sfaccettato, e oscilla fra due polarità: uso pubblico e passione privata.
Per riscostruirlo nelle sue varie articolazioni, Niven ha fatto ricorso a innumerevoli fonti. Nessuna ignota agli studiosi, tutte (o quasi) inedite per il lettore comune, specialmente quello italiano: dai carteggi fra gli assistenti del Führer e il personale del ministero della propaganda ai diari torrentizi di Joseph Goebbels; dalle memorie autoassolutorie dei registi Veit Harlan e Leni Riefenstahl alle rubriche e riviste di cinema del periodo nazista, fino, naturalmente, alle pellicole di centinaia di film e cinegiornali prodotti dal Reich. Esaminando e incrociando questi materiali, con vigile coscienza della loro gerarchia, l’autore ci rivela un nuovo volto di Adolf Hitler. O meglio, quattro.
Il primo è quello di spettatore privato: accanito, compulsivo, insaziabile. Hitler fu – per dirla con uno spudorato anacronismo – un inguaribile binge-watcher. La vittima ideale di Netflix. Secondo il suo assistente Julius Schaub, quasi ogni sera guardava, da solo o in compagnia, uno o più film; e secondo il suo fotografo personale Heinrich Hoffmann, riguardava ossessivamente i più amati, tra cui I nibelunghi di Fritz Lang (1924).
Quali erano gli altri? Difficile dirlo con certezza, anche se negli archivi federali tedeschi è conservata una raccolta di giudizi del Führer su tutti i film proiettati nel 1938-39 al Berghof, lo chalet sulle Alpi bavaresi dove era solito trascorrere lunghi periodi dell’anno. Giudizi eccessivamente stringati, purtroppo, ma sufficienti, insieme con altri indizi come l’inventario della cineteca del Berghof, a darci un’idea delle sue predilezioni: film epici, storici, comici e cartoni animati, su tutti quelli di Mickey Mouse (dono di Natale di Goebbels del 1937).
Il secondo volto, speculare al primo, è quello di spettatore pubblico. Contrariamente ai suoi ritmi di visione domestica, Hitler frequentava le sale cinematografiche con strategica moderazione. Che fosse in occasione della prima dell’Inferno dei mari di Gustav Ucicky (1933) o di quella della Squadriglia degli eroi di Karl Ritter (1938) o di quella di Un matrimonio movimentato di Wolfgang Liebeneiner (1939), ogni sua apparizione nel palco d’onore dell’immenso Ufa-Palast di Berlino (distrutto da un bombardamento nel 1943) costituiva una mossa propagandistica accuratamente studiata.
Sebbene il controllo preventivo dei film fosse una prerogativa di Goebbels (che non solo proibì ma custodì sotto chiave opere esplosive come Via col vento e Il grande dittatore), Hitler non disdegnò di calarsi nei panni di censore (terzo volto) ogni volta che le circostanze lo richiedevano. Quando ciò accadde, si attenne alla più genuina ideologia nazista: approvò la decisione del suo fidato ministro della propaganda di vietare Abele coll’armonica a bocca di Erich Waschneck (1933), per le sue implicazioni omosessuali; respinse una prima versione della Resa del Sebastopoli di Karl Anton (1936), troppo indulgente nella rappresentazione della rivoluzione bolscevica; ma risparmiò, forse ammaliato dall’interpretazione di Greta Garbo, Margherita Gauthier dell’ebreo George Cukor (1936), che raggiunse trionfalmente le sale tedesche nel 1937.
L’azione del Führer in veste di committente (quarto volto) si concentrò invece attorno a un solo nome: Leni Riefenstahl. Pur essendo osteggiata da Goebbels, il cui diario è prodigo di commenti misogini che la riguardano («Leni è molto brava. Se solo fosse un uomo!», 22 novembre 1934; «è estremamente isterica, una prova in più del fatto che le donne non possono gestire tali compiti», 18 settembre 1936), la giovane regista fu sempre protetta e riverita da Hitler, che le mise a disposizione mezzi illimitati. Questi, uniti a una straordinaria padronanza della tecnica cinematografica, le permisero di realizzare due ipnotici e magniloquenti lungometraggi – Il trionfo della volontà (1935) e Olympia (1938) – che celebravano rispettivamente il Raduno di Norimberga del 1934 e i Giochi olimpici di Berlino del 1936.
Al di là delle agiografie visive della Riefenstahl, non risulta che Hitler abbia commissionato direttamente altri film. Sarebbe tuttavia un errore sottovalutare il suo ruolo nella produzione delle pellicole antisemite che invasero le sale di proiezione a partire dal 1940. Attraverso un’analisi delle varie stesure della sceneggiatura di Süss l’ebreo, per esempio, Niven dimostra che Veit Harlan aveva modificato i dialoghi del suo film per accordarli all’evoluzione delle idee e delle politiche antiebraiche del Führer.
Benché sia ormai noto a tutti che il cinema è stato lo strumento di propaganda privilegiato dalle dittature, i modi e le forme in cui esso fu impiegato dai vari regimi sono tuttora oggetto di ricerche accademiche (il contributo più recente e originale è il saggio storico-filologico di Ruth Ben-Ghiat Italian Fascism’s Empire Cinema). Per quanto riguarda il regime nazista, l’equilibrio tra analisi e sintesi raggiunto dal libro di Niven, ne fa un testo di riferimento da cui difficilmente si potrà prescindere.
Non bisogna tuttavia dimenticare che i film sono documenti di un’epoca al di là delle intenzioni dei loro autori o committenti. Chi per esempio volesse osservare attraverso la lente del cinema l’incubazione del germe nazista nella Repubblica di Weimar, dovrebbe ricorrere al vecchio ma insuperato saggio di Siegfried Kracauer Da Caligari a Hitler. Storia psicologica del cinema tedesco (1947).