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 2019  gennaio 20 Domenica calendario

Le barzellette degli antichi romani

Narrano Cicerone e Plinio il Vecchio che Licinio Crasso avo del tribuno e anch’egli generale in Oriente non rise mai in vita sua, o tutt’al più una volta sola; sempre imperterrito, non mutava mai fisionomia. Ma tanti, tutti gli altri godevano come noi del riso a teatro e a scuola, ascoltavano volentieri anch’essi a fine cena qualche barzelletta e la diffondevano. Molte anzi, anche delle nostre, risalgono addietro in una lunga catena fino all’antica Roma e alla sua letteratura, e anche oltre, elegantemente elaborate dalla tradizione o dai singoli condensando l’arguzia nella stringatezza, elaborando varianti alla ricerca della maggior efficacia, e del maggior effetto ed eleganza. La storiella data da Freud di un re che imbattendosi in un suo sosia gli chiede stupito se sua madre avesse mai frequentato la corte, e si sentì rispondere: «No, ma mio padre sì», è già nei  Detti memorabili di Valerio Massimo (sec. I d.C.) e nei  Saturnalia di Macrobio (sec. IV). Il lettore dei  Fiori blu di Queneau che s’imbatte anch’egli nella risposta di un Re al nobile Auge, il quale gli annuncia la morte della propria moglie: «Non l’avrai uccisa tu, spero. Con te non si sa mai», si sovviene immediatamente di aver già trovato battute analoghe di forma e di contenuto, ispirate ai cliché delle mogli invadenti e grevi, in comici e satirici remoti.  
Perciò si può pensare con rimpianto alla perdita delle raccolte di detti spiritosi, barzellette, giochi di parole, arguzie compilate allora. Pare che Giulio Cesare stesso ne abbia combinata una sua di queste raccolte, poi distrutta dopo la sua morte dal cauto Augusto, e che esistessero allora prontuari al servizio dei commediografi. Noi dobbiamo accontentarci delle duecentosettanta storielle di un trattato greco databile fra la tarda antichità e l’inizio del Medioevo, Philogelos ovvero L’amante del riso, e di sparse citazioni fra altre raccolte di detti. 
Anche lì e anche allora le facezie avevano spesso bersagli preferiti, uguali ai nostri, ridicoli e ridicolizzabili efficacemente per la loro stramberia nel mondo circostante: l’intellettuale, l’avaro, il beone, il misogino, la bisbetica, gli abitanti di certe città o nazioni (allora gli Abderiti in Tracia, i Cumani in Asia Minore o i Cretesi). 
Così troviamo un intellettuale il quale, sentito dire che i corvi campano oltre duecento anni, ne acquista uno per verificare se fosse vero. Un altro, volendo addestrare il proprio asino a fare a meno di mangiare, cessò di cibarlo, e quando morì esclamò: «Che peccato! proprio ora che aveva imparato a digiunare!». 
Un astrologo compiacente compila l’oroscopo alla madre di un bimbo ammalato, pronosticandogli molti anni di vita. Prima di andarsene chiede di essere pagato, e alla madre che lo invita a venire l’indomani risponde: «Già, ma se nel frattempo muore?».
A un beone in una taverna qualcuno annuncia la morte della moglie, ed egli all’oste: «Dunque versami vino nero».
Un abderita incontrò un eunuco in compagnia di una donna e gli chiese se era sua moglie; alla risposta negativa riprese a dire: «Dunque è tua figlia?».
Persino Cicerone rideva di questi tipi (la barzelletta è del resto raccomandata anche agli oratori per risvegliare di tanto in tanto l’interesse dell’uditorio). Trova posto anche nel De oratore la famosa barzelletta, diffusissima e con protagonisti diversi, per cui Ennio entra in casa di Scipione Nasica e chiede ad alta voce se c’è il padrone; Scipione risponde dal piano superiore che non è in casa, Ennio riconosce la sua voce, si accorge dell’inganno e si adonta; al che Scipione: «Sciagurato, se te l’avesse detto un mio servo l’avresti creduto, e tu non credi a me in persona?».
La vitalità di queste facezie è ben provata in un volume di Tommaso Braccini, studioso di stravaganze e fantasie letterarie e no, dagli orchi a Dracula, e autore nel 2008 di un’edizione italiana dello stesso Philogelos. La prima e più ampia parte di questo suo Lupus in fabula documenta specificamente la sopravvivenza e la catena nei secoli di narrazioni e favole orali e folcloristiche, da un passato anche remoto agli odierni e diversissimi mezzi di comunicazione. 
A Noè e alla lirica greca arcaica risale la caratterizzazione delle donne diffusa ancora oggi in Grecia, per cui alcune discendono dalla scrofa, altre dalla cagna, altre dalla volpe e altre finalmente dall’ape laboriosa, «che speriamo ti tocchi, amico mio!» (Focilide di Mileto, sec. VI a.C.). Le Parche infestano sotto altre spoglie il folclore e riti propiziatori moderni un po’ dovunque. Né ciò avviene di meno in àmbito religioso, dove rivivono allegramente miti di discesa agli inferi e di giudici o mostri infernali simili a Minosse, Caronte e Proserpina. 
E c’erano già anche allora ridicolaggini viventi in carne ed ossa come oggi in certe macchiette. Socrate, secondo la descrizione di Rabelais sulla scorta del Simposio di Platone e della descrizione del suo allievo Alcibiade, era una macchietta da commedia dell’arte la quale, spiega Aristotele nella Poetica, fa ridere come un errore compiuto dalla natura o uno sgorbio dell’arte: cioè «ridicolo già nel suo corpo, col naso aguzzo, lo sguardo bovino, il viso di un buffone, vestito da contadino, scarso di mezzi, sfortunato con le donne» Gli dèi stessi ridono inestinguibilmente nell’Iliade del collega Efesto, che storpio e fosco si mette a fare il coppiere e s’affanna a distribuire a loro e a sua madre dalle candide braccia il dolce liquore.
La presenza di questa “biblioteca orale” nella mente dei lettori e nella sfilza dei secoli non è nemmeno soltanto un dato folcloristico e uno strumento sapienziale, ma anche una risorsa che permette di approfondire e arricchire la lettura di molti testi letterari, i discorsi a tavola dei Sette Sapienti tramandati e creati da parecchi enciclopedisti greci, o quelli dei convitati di Trimalcione nel Satiricon di Petronio, e così la sapienza medievale o la novella trecentesca.
Le vecchie barzellette, ci insegna un’altra studiosa della materia, Mary Beard, concludendo il suo Ridere nell’antica Roma (2016), «sono davvero, come si dice, le migliori».