Il Sole 24 Ore, 20 gennaio 2019
A tu per tu con Steve McCurry
I maestri della fotografia che lo hanno influenzato come Henri Cartier-Bresson e André Kertész sono legati indissolubilmente al bianco e nero, ma lui sarà ricordato per aver scattato “Afghan Girl”, l’immagine che dopo essere stata pubblicata sulla copertina di «National Geographic» nel giugno del 1985 è diventata una delle foto a colori più riconoscibili del ventesimo secolo. Ha avuto l’onore di vedersi consegnare l’ultimo rullino di Kodachrome 64 uscito dagli stabilimenti della Kodak perché potesse celebrare lo sgargiante funerale di una delle pellicole simbolo del fotogiornalismo, ma oggi si dice felicemente convertito al digitale e racconta che non passa giorno senza scattare qualche foto con il suo telefono. Ha fatto in tempo a vivere gli ultimi decenni dell’Età dell’oro dei newsmagazine, ma anziché rimuginare su budget e tirature che non torneranno più preferisce pensare al fatto che là fuori ci sono ancora «grandi storie da raccontare e fotografi meravigliosi che fanno cose interessanti».
Le prima cosa che si nota conversando con Steve McCurry è che questo no-nonsense man nato in un sobborgo di Philadelphia e diventato adulto in alcuni dei luoghi più suggestivi e inospitali della Terra non ama guardarsi alle spalle e continua a essere ostinatamente più eccitato dall’ignoto che dal suo (straordinario, peraltro) vissuto. «Non ho mai ripensato alle scelte che ho fatto», spiega un po’ stupito quando gli chiedo se si interroghi mai su tutto ciò che una vita quasi costantemente on the road potrebbe avergli sottratto. «Ho sempre guardato avanti, non a chi sarei stato se avessi fatto qualcosa in modo diverso. Credo che farlo sia pericoloso, negativo, distruttivo».
Un approccio alla vita pratico e, per certi versi, molto americano. E, forse, anche un modo per tenere a bada i fantasmi di una gioventù tormentata: a 5 anni un grave incidente domestico che compromette in maniera permanente il braccio destro (McCurry scatta con un’impugnatura avvitata alla base della macchina); una madre che, dopo una lunga malattia, muore quando Steve ha solo una decina d’anni; un’adolescenza turbolenta e ribelle.
Neppure il fatto di parlare circondati dai 60 scatti di “McCurry Animals” – la mostra inaugurale di Mudec Photo, il nuovo spazio all’interno del Museo delle Culture di Milano, che resterà aperta al pubblico fino al 31 marzo – sembra suscitare chissà quali moti di nostalgia. Eppure siamo circondati da immagini bellissime di mondi sempre meno remoti e sempre più minacciati dalla modernità. «Le cose cambiano, le culture cambiano. È inevitabile, è così da secoli» dice con una voce che ha le increspature, ma non la fiacchezza, della vecchiaia. A 68 anni, complici un fisico compatto e un modo molto intenso di guardare i propri interlocutori, McCurry tiene ancora fede alla sua fama di uomo pieno di energia. È a Milano da poche ore, ha un denso programma di incontri e domani sarà già in un’altra città. Da buon frequent flyer sa come coniugare praticità e un pizzico di eleganza: pantaloni khaki, camicia a righe, mocassini e uno di quei classici blazer blu buoni per tutte le occasioni che consentono di viaggiare leggeri. In compenso, come ogni volta che è lontano da casa, ha con sé un iPad pieno di film che, a distanza di anni, non smettono di incantare il laureato in Cinematografia che è in lui. Capolavori in bianco e nero come La grande illusione di Jean Renoir, Viale del tramonto e La fiamma del peccato di Billy Wilder, Fronte del porto di Elia Kazan, Il terzo uomo di Carol Reed, Ladri di biciclette di Vittorio De Sica, ma anche i primi due film della saga del Padrino di Francis Ford Coppola e Goodfellas di Martin Scorsese.
L’abilità di muoversi con poco o nulla appresso McCurry l’ha perfezionata nel maggio del 1979 quando, portando con sé due macchine fotografiche, quattro obiettivi, una tazza di plastica, un coltellino svizzero, una borsa piena di rullini, una scorta di noccioline prese in aereo e una copia di Narciso e Boccadoro di Herman Hesse abbandonata da un trekker in hotel da due dollari, attraversò di notte il confine tra il Pakistan e l’Afghanistan per trascorrere intere settimane tra i mujaheddin che si preparavano a combattere l’invasione sovietica. Le foto di quel conflitto lanciarono la carriera di McCurry che, nei decenni successivi, sarebbe tornato nel Paese una trentina di volte senza per questo sentirsi mai un fotografo di guerra: «Ciò che mi interessava erano le conseguenze dei conflitti, i rifugiati. Le battaglie non mi hanno mai appassionato», racconta con un understatement raro in un mondo come quello dei giornali dove l’abbellimento della propria biografia è un’arte raffinatissima. Dai viaggi afghani è nato anche il legame con gli abitanti di Bamiyan, una delle province più remote del Paese, dove McCurry ha fondato ImagineAsia, una Ong che usa la fotografia come strumento di emancipazione femminile.
L’unica retorica che affiora dalle parole di quest’uomo è quella del lavoro. «Nella vita – spiega – di solito non ci sono soluzioni facili. Fare le cose per bene richiede tempo, fatica, disciplina». Che non si tratti di un cliché lo comprendo qualche settimana più tardi quando, continuando al telefono la nostra conversazione mentre McCurry si trova con la famiglia «nel suo eremo in Arizona», mi racconta la sua giornata tipo durante un recente servizio a Cuba: sveglia alle 5, per essere in strada a scattare foto «prima che sorga il sole»; una pausa pranzo «ma non di due ore»; altre foto «fino a dopo il tramonto». In tutto «500, forse 700 scatti al giorno per settimane e un totale di circa 30mila immagini» prima di fare le valigie e tornare a casa. «A volte – spiega – il momento giusto non si rivela subito. Un’espressione fugace, il breve disporsi dei soggetti in un determinato modo… non sai mai quando ti capiterà. E allora continui a camminare, a cercare… più stai in giro e più possibilità hai di trovare qualcosa di meraviglioso che abbia davvero un senso. È una questione di motivazione e di resistenza fisica. Mi rendo conto che detto così non sembra molto piacevole, ma quando lavoro sono come in una stress-free zone, entro in una specie di stato meditativo. Non succede subito, spesso occorre del tempo per essere sulla stessa lunghezza d’onda di un luogo, ma poi è come se il posto in cui ti trovi iniziasse a rivelarsi. E allora cominci a “vedere” fotografie un po’ ovunque».
Non è un caso che McCurry ritorni frequentemente nei luoghi dei suoi reportage, in particolare in quella regione, «la più affascinante del mondo», che si estende «dalla Birmania all’Afghanistan sulla direttrice est-ovest e dal Tibet allo Sri Lanka su quella nord-sud». Nella sola India è stato un’ottantina di volte, talvolta scattando fotografie così sfacciatamente belle da far storcere il naso a qualcuno. Come lo scrittore e critico Teju Cole che, in un articolo del 2016 intitolato “A Too-Perfect Picture” pubblicato dal «New York Times Magazine», definì «straordinariamente noioso» il suo corpus fotografico, accusando McCurry di «considerare i luoghi dalla prospettiva di un passato antropologico permanente». Una critica in egual misura pretestuosa e ferocemente esatta a cui lui sembra saper bene come rispondere: «Il ruolo di un artista – spiega serafico – non consiste nel dare un’immagine equilibrata di un luogo. O nel domandarsi se ciò che fa è politicamente corretto. O nel chiedersi se ha incluso nelle proprie opere tutto ciò che può rendere felice un critico o gli abitanti di un certo Paese. Ha forse senso criticare un artista astratto perché vede il mondo in termini astratti o perché la sua palette non contempla il verde quando invece il mondo è anche verde?».
Dato che siamo in tema di colori e domande antipatiche, gli chiedo che effetto faccia a un maestro della saturazione veder dilagare sui magazine foto eteree, artatamente pallide e sbiadite, perennemente sovraesposte. «Personalmente – spiega – ho sempre gravitato verso la sottoesposizione, ma sono convinto che ognuno debba trovare il proprio modo d’espressione, il proprio percorso creativo. Dipende da come si guarda il mondo. Ci sono stili, ci sono mode, c’è chi infrange le regole. È così da che esiste l’arte». Mente aperta, ma anche idee chiare su chi sia un bravo fotografo e chi un maestro. Quando gli chiedo quali siano i contemporanei che ammira fa solo tre nomi: Elliott Erwitt («un amico e una persona da cui ho imparato moltissimo negli anni»); James Nachtwey («un fotografo meraviglioso che penso abbia affrontato tutti i grandi temi») e Sebastião Salgado («ha un corpus di opere incredibile e il suo lavoro sul pianeta è molto bello e poetico»).
Nel tentativo di strappargli almeno una cattiveria prima di salutarci, gli chiedo cosa pensi del fatto che, proprio adesso che abbiamo tutti una macchina fotografica perennemente in tasca e possiamo viaggiare come mai prima, sembriamo non fare altro che scattare foto di noi stessi. «Credo – risponde senza tradire il minimo disprezzo per le masse armate di selfie stick che sciamano dai bus turistici – che sia una moda passeggera e che non ci sia nulla di male a divertirsi un po’ facendosi delle foto con il telefonino. Credo anche che documentare le nostre vite abbia un grande valore e che non ci siano molte cose più preziose delle immagini della nostra famiglia e dei nostri amici. La vita è breve: se farsi un selfie davanti alle piramidi rende qualcuno felice, chi sono io per giudicarlo?”.