il Fatto Quotidiano, 19 gennaio 2019
Ritratto di Adriano Celentano
Il miracolo avvenne tra le pozzanghere di fine anni Cinquanta e la prima nebbia di via Gluck. Adriano scese dal terzo piano di ballatoio in canottiera, stuzzicadenti e stivaletto bianco. Si guardò intorno. Calcolò il punto preciso in cui si incrociavano il ciuffo impomatato di Elvis Presley con l’ugola negra di Tony Dallara. Mostrò il sorriso col canino. Mostrò le sopracciglia con la pausa. E imbracciando il suo primo accordo in Mi settima, salì per sempre sul tram della nostra vita. E il tram si chiamava Rock and Roll. Celentano nacque orologiaio, che è un mestiere ricamato dal silenzio musicale di ingranaggi. Ma era solo un trucco per studiare il favoloso tempo dei quattro quarti scanditi in vinile che avrebbero fatto la storia, il lessico e il costume di un Paese dove, dopo la polvere della guerra, stava per essere inventata la giovinezza. Quella con la Lambretta e la domenica in balera, lo struscio sul corso, la rotonda sul mare.
Scaraventati sul palcoscenico del Salone delle Feste di Sanremo, i suoi 24 mila baci, apparsi nell’anno 1961, hanno fatto friggere il cuore di mille ragazzine al giorno, per tutti i giorni a venire. Mentre nelle camerette d’adolescenza, magrissimi ragazzi si studiavano le mosse di Stai lontana da me, un colpo d’anca a destra, uno a sinistra con gambe divaricate e poi la giravolta, le spalle piegate in un anticipo di twist, la smorfia col gorgheggio.
Quando nel bianco e nero della televisione è comparso con le spalle rivolte al pubblico, è stato il lampo che tutti aspettavamo. L’insofferenza che cresceva. La voce che mancava.
Con Mina, Battisti e De André, Celentano ha cavalcato il secolo e lo ha fatto dondolare d’armonia. Ha inciso mille canzoni, illuminato cento film, riempito i rotocalchi di milioni di parole. Ma è stato anche l’unico a sedersi al centro del più lungo silenzio televisivo – dentro al suo indimenticabile Fantastico numero 8, anno 1987 – per poi andarsene ridendo in anticipo di quante pompose chiacchiere si sarebbero fatte. E che infatti si fecero, da Eco a Moravia, a proposito del “potere ipnotico della televisione”. Ma tutti trascurando la ragione più semplice di quel mistico silenzio: si era dimenticato le parole e quel vuoto lo aveva usato per riempirci di stupore, rivelandoci quanto fosse assordante lo spettacolo che quotidianamente ci imprigiona. Lui venne a liberarci.
Da allora – e per acclamazione – il suo sguardo obliquo divenne profezia. E collettivo discernimento tra il cuore rock e la vita lenta, la luce e il buio. Compreso il memorabile “Berlusconi è lento, i Simpson sono rock”. Ma sempre lui, “il re degli ignoranti”, come unico esegeta del mistero, nonché titolare della colonna sonora che lo tiene (incredibilmente) giovane da allora, conciliandone tutti gli opposti, di urlatore melodico e populista miliardario, guru, para guru, cretino di talento, disinformatore carismatico, unico spettinato anche in assenza di capelli. E adesso, appena compiuti gli 81 anni in carne e ossa, pronto a tornare in forma di apologo e di fumetto, disegnandosi Adrian.
Adriano Celentano nacque nell’anno 1938, nel giorno dei re magi, in una Milano che non c’è più. Studiò fino alla quarta elementare. Fece l’arrotino e l’idraulico. Per quattro anni il riparatore di orologi e il giocatore di biliardo nei bar di Porta Genova, detta la Casbah. Fino a una sera dei suoi 18 anni, quando al tavolo di cucina disse alla madre: “E se mi mettessi a cantare?”.
Si è appena comprato un giradischi e il 45 giri di Little Richard che strilla Rock Around The Clock. Al bar Aurora ha incontrato Miki Del Prete che gli mette in rima le prime strofe e un certo Elio Cesari col ciuffo e la balbuzie, che suona la chitarra e sta per mutarsi in Tony Renis. E siccome nei cinema di terza visione del Lorenteggio va alla grande la coppia Jerry Lewis e Dean Martin, Adriano e Tony si infilano in quello specchio e imparano le mosse. Non hanno paura di nulla. Salgono sul palco dello Smeraldo coi Rocky Mountain travestiti da cow boy, e fondono il Palazzo del Ghiaccio di Milano cantando per dieci volte di seguito Ciao ti dirò, unica canzone del repertorio, circondati da ragazzini urlanti.
Scendono all’Aretusa e al Santa Tecla, dove tra un pallido Enzo Jannacci, studente in Medicina e un Giorgio Gaberscik, ragioniere, si ascolta il primo jazz di importazione, il Be Bop di Charlie Parker, che fa sognare l’America ai nuovi giovanotti del terziario milanese in ricreazione e alle signorine in permanente trepidazione prematrimoniale.
L’incontro della vita è col Bruno Dossena, ballerino e impresario con spettacolo itinerante nei dancing della Lomellina che lo battezza Adriano il Molleggiato. E gli fa fare la gavetta, accompagnato dai baci di Milena Cantù che fa la commessa nella profumeria di piazzale Loreto. La sua prima auto è una Giulietta. Il suo primo complesso canta Il ribelle, che dice: “questo mondo che non vuol la fantasia/io son ribelle nel vestire, nel pensare, nell’amar la bimba mia”. Fellini che cerca “le facce” per la sua Dolce vita, si incanta davanti alla sua. Arrivano il successo e i dischi d’oro. Fonda il Clan, in stile Frank Sinatra, ma con Gino Santercole, Don Backy, Ricky Gianco, Teo Teocoli. Più una coda di litigi, querele e avvocati, in stile italiano.
Compra un attico dietro la stazione Centrale e una Thunderbird decapottabile turchese. Incontra Claudia Mori, che viene dalla rivista di Dapporto. Si innamora per sempre. La sposa nel 1964 in una chiesa di Grosseto alle 3 del mattino per paura dei fotografi. Dirà: “Siamo la coppia più bella del mondo” e finiranno per cantarla insieme. Insieme faranno tutto, i tre figli, la musica, il cinema, la villa di Galbiate che sarà il suo castello e il loro permanente esilio.
Predica Svalutation. Inventa Prisencolinensinainciusol, il primo rap della storia, incide Azzurro di Paolo Conte. Non va in America perché ha paura dell’aereo. Non va in treno perché ha paura delle gallerie. Non mangia il pesce se prima Claudia non gli ha tolto le lische. Non frequenta i mondani. È astemio e va a letto presto. Tifa Inter. Veste beatinik, è contro la caccia e contro il nucleare, ma pensa conservatore e vota liberale. Mentre brucia l’Autunno caldo delle fabbriche, canta Chi non lavora non fa l’amore. È contro l’aborto, contro i gay, ma anche contro la religione dei mercanti e dei farisei. Ama Gesù al punto da inventarsi una sua controfigura cinematografica che battezza Joan Lui, ma che purtroppo risulterà una parodia, piuttosto che un omaggio. E a dirla tutta sarà il suo unico insuccesso – otto mesi di riprese, 20 miliardi di lire buttati – lungo una carriera cinematografica sontuosa anche per semplicità di trama, visto che in ogni film ha interpretato un solo personaggio, se stesso: l’ingenuo che alla fine si dimostra il più dritto di tutti, più o meno come nella vita vera.
È stato il più celebre, il più carismatico della scena italiana. Il più politico degli impolitici che predica rivoluzioni non del tutto portatili, la democrazia diretta, l’ecologismo, la pace universale.
Uno dei pochi che aveva in testa un intero mondo e non ha mai avuto paura di abitarlo anche da solo. Lo ha raccontato in Francamente me ne infischio, 125 milioni di cazzate, Rockpolitic e Rock Economy. Sempre salendo spaesato sul palco, ma più libero di tutti, fermando la musica quando non gli garbava, mandando in malora i divieti e le autorizzazioni, grattandosi la testa in cerca di qualcosa. Radunando gli amici, che un tempo erano Dario Fo, Franca Rame, la voce invisibile di Mina. E ogni volta con la più spettacolare delle premesse al suo miracolo: “Se volete cambiare canale fatelo, ma quali cazzate troverete migliori di quelle che sto dicendo io?”.