La Stampa, 19 gennaio 2019
Intervista a Paolo Canevari
Paolo Canevari è sulla scena internazionale da molti anni. E da poco tornato dalla Biennale di Bangkok dove ha presentato i suoi ultimi lavori, Monocromi in oro zecchino che evocano la purezza delle forme e invitano alla contemplazione.
E’ cresciuto in una famiglia di artisti (il nonno Angelo è, tra l’altro, l’autore dei mosaici della piscina del Foro Italico a Roma, suo padre era scultore). Dopo aver lavorato per anni negli Stati Uniti e in particolare a New York, dove il Moma conserva una sua importante opera presentata alla Biennale di Venezia del 2007, è tornato a Roma, che della sua arte è in qualche modo la protagonista, con continui richiami alla classicità ma anche con la potenza deflagrante della sua maestosità.
Lo incontriamo a Piazza Farnese, sullo sfondo dell’ambasciata di Francia, in una fredda serata di inizio anno. Lo spunto è il libro uscito da poco per Salani editore, I tacchini non ringraziano, che ha preparato insieme con Andrea Camilleri. Un libro tenero, divertente, pieno di poesia, con i suoi disegni e le storie in cui Camilleri racconta tutti gli animali della sua vita. A prima vista una coppia inedita.
Com’è nato questo libro, Canevari?
«Abbiamo cominciato a lavorarci un paio di anni fa. All’inizio avevamo pensato a delle poesie, poi invece Camilleri mi ha parlato di racconti che avevano come protagonisti alcuni animali. Animali incontrati nell’arco di una vita: da quando era bambino fino a qualche anno fa. E alcuni li ho incontrati anche io, gli stessi».
Così ha disegnato per quei racconti?
«No, la cosa interessante è che sono disegni che avevo fatto tra il 1990 e il 1992-93. Li avevo esposti in una delle mie prime mostre a Roma».
E Camilleri li aveva visti in quegli anni?
«Camilleri li ricordava bene: la mia famiglia e la sua si conoscono e si frequentano da sempre. Ora sarebbe stato impossibile, lui non ci vede quasi più, dopo l’operazione agli occhi di un paio di anni fa. In qualche modo è un lavoro che si è sedimentato ed è cresciuto negli anni, un racconto di vita vissuta in parte insieme ma con due punti di vista: quello di un uomo adulto e quello di un ragazzo. Un esercizio di memoria, a volte condivisa. I miei disegni erano raccolti in album dal titolo Memoria mia. Tutto torna».
Come avete messo insieme disegni e testi?
«Questi disegni nacquero per una mia esigenza che partiva dal profondo, una sorta di necessità legata a fatti dell’epoca, un modo per indagare dentro di me, un richiamo all’infanzia. Una sorta di disegno automatico. Ne abbiamo parlato e, mettere insieme racconti e disegni è venuto naturale. Il libro è nato così».
Per lei un’esperienza nuova?
«In un certo senso lavorare a questo libro con Camilleri è stato come tornare indietro negli anni, parlare e ricordare un’intimità casalinga che fa star bene. Un vedere riapparire personaggi, animali e situazioni che sono sopiti e che si rianimano all’improvviso».
Qual è il suo racconto preferito?
«Forse quello dei tacchini che dà il titolo al libro, ma anche quello di Barone, che era il gatto di Camilleri innamorato della figlia più piccola».
Che progetti ha per questo nuovo anno?
«Dopo Bangkok, dove ho portato gli ultimi lavori, ad aprile la Galleria Stein di Milano presenterà una mia retrospettiva e poi uscirà un libro di interviste scritte da Robert Storr, l’ex curatore del Moma e della Biennale di Venezia, in cui facciamo una lunga chiacchierata».
Lei insegna all’Accademia di Belle Arti a Roma. Cosa racconta ai suoi studenti?
«Cerco di insegnare ad essere artisti. Credo sia una cosa importante. Dopo 14 anni di vita negli Stati Uniti, si torna affrontando il lavoro in modo diverso. L’Italia è molto cambiata, ma alcuni vizi sono sempre i soliti: pochi investimenti nell’arte, nella cultura in genere. Un paradosso per il nostro Paese. Ci sono difficoltà con il mercato, è tutto più difficile. Mi piacerebbe cambiare le cose da dentro. Almeno provarci».
Gli studenti, in questo caso, al contrario dei tacchini, ringraziano.