il Giornale, 19 gennaio 2019
I cent’anni del Negroni
Di monumenti liquidi non ce ne sono tanti. Passi per marmo, metallo e perfino vetro, ma è difficile durare senza una fisicità. Eppure, a cento anni dalla sua creazione, oggi domina ancora la scena un monumento fatto di gin, bitter e vermut: il Negroni, l’italianissimo cocktail aere perennius, più duraturo del bronzo.
Al di là della storia, c’è da spiegarne il successo: bevuto da James Bond in Risiko, citato da Orson Welles che ne adorava l’equilibrio fra «il bitter che fa bene al fegato e il gin che lo devasta», vanta un Club Negroni con 4.200 soci in 28 Paesi, ha una settimana dedicata (dall’1 al 7 giugno) ed in pieno delirio di marketing siamo arrivati pure ai kit fai-da-te e ai ghiaccioli. Insomma, è un vincente, il secondo più ordinato al mondo per Drinks International.
Per spiegare le ragioni per cui istintivamente all’aperitivo ordiniamo un Negroni con la stessa naturalezza con cui sbattiamo le palpebre, occorre partire dall’epica della sua creazione. La storia documentatissima l’ha raccontata il bartender fiorentino Luca Picchi in Negroni cocktail. Una leggenda italiana. Qui si daranno solo aneddoti come olive e curiosità come noccioline, come in ogni aperitivo che si rispetti.
Tutto inizia a Firenze, nella Drogheria-Profumeria Casoni, tra via de’ Tornabuoni e via della Spada. Convenzionalmente si è scelto il 1919, ma poteva pure essere il 1918 o il 1920. Folco Scarselli, «miscelatore» al bancone, è appena tornato dalla Grande Guerra. Fra i clienti spicca un hipster ante-litteram, il conte Camillo Negroni, che ogni pomeriggio quando scocca «l’ora del vermut» prima di finire al Grand Hotel passa di qui per carburare in anticipo. Il conte è personaggio da film, una via di mezzo fra Johnny Depp e Céline. Allievo ufficiale a Modena, cowboy in Wyoming, giocatore alle corse, insegnante di scherma a New York, cavallerizzo a Bolgheri, progettista di giardini, cacciatore, fumatore e picchiatore. E bevitore. Forte. Pasteggia a whisky ma per quegli arabeschi della memoria che ricamano l’orlo fra verità e leggenda nessuno lo vide mai ubriaco. Il popolo beve vino, borghesi e nobili i distillati e le «miscele» appena arrivate – via Torino – dall’estero. Perciò ogni aperitivo è un «Americano». Quello propriamente detto prevede vermut rosso, bitter e soda. Il conte, reduce da Londra, chiede di «irrobustirglielo». Folco sostituisce la soda col gin, stesso colore e grado più alto. E «l’Americano alla maniera del conte Negroni», servito in coppette da cordiale (per questo in una lettera del 1920 Francis Harper raccomanda al conte di «non berne più di 20 al giorno») diventa di moda.Non è questa la sede per ripercorrere le vicissitudini del Caffè Casoni, diventato Bottega Giacosa e o tempora o mores un Just Cavalli cafè prima di chiudere nel 2017. Né tanto meno si parlerà di altre presunte genesi e differenti denominazioni, come il «Tortoni» servito a Buenos Aires o il «Mussolini» con cui divenne famoso a Parigi e che a occhio ne avrebbe frenato la fortuna. Quel che preme oggi è capire il suo segreto.
Prima di tutto è un drink facile. Da riconoscere (tre liquori in parti uguali), da ordinare in tutte le lingue e da ricordare. Però è anche dannatamente selettivo, perché come dice Salvatore The Maestro Calabrese l’uomo che ha preparato un Negroni di 300 anni con ingredienti di inizio 900 – «la semplicità è la cosa più complicata». Fa selezione fra i barman, spesso messi alla prova con la sua preparazione. Farlo male è difficile, ma farlo meno bene è un attimo, perché è perfetto ed ogni dettaglio può rovinarlo: diluizione eccessiva, bicchiere non abbastanza freddo, ordine sbagliato degli ingredienti (rigorosamente gin, vermut e bitter), mescolata senza alzata. E fa selezione anche fra chi lo beve.
Già, i clienti. Loro hanno creato il mito. Perché il Negroni è impegnativo, solo per gente motivata, astenersi perditempo e frivoli bevitori di Spritz. Dall’epica si passa all’etica: il Negroni è possente, a parte il ghiaccio e l’arancia è tutto alcolico. Non è da meditazione, ma ti fa pensare, e infatti ci pensi due volte prima di chiederne un altro. È ardito, divertente, spaccone, mai lunatico. È l’amico fedele su cui puoi contare e con cui passi sempre volentieri una serata, è l’incoscienza dei vent’anni, è la generosità di spirito. Con le sue tre sfumature di amaro, è un inno alla demolizione dei fronzoli: ti dice le cose in faccia e a voce alta. È il Nietzsche degli aperitivi e al secondo già ti invade un superomismo gaglioffo che ti fa venir voglia di spaccare le arachidi con il martello di Thor. Nato quando l’Art Nouveau sconfinava nel futurismo, ha il tratto delle illustrazioni di Dudovich e un tono di rosso a metà strada fra il Natale e l’allegria. Uccidiamo il chiaro di luna, i guai e i drink fighetti.
Ecco perché ha attraversato il fascismo, il boom economico e la Milano da bere fino a primeggiare perfino in quest’epoca sciantosa di fuffa alcolica ed esercizi di stile fini a se stessi. Ecco perché ha collezionato imitazioni e variazioni infinite dallo Sbagliato al Negroski, dal Negroni invecchiato in anfora all’Estate Negroni con l’Aperol (una bestemmia). Perché è un cocktail psicologicamente risolto che parla alla nostra parte più sincera e irriverente, libera da complessi e sovrastrutture.
Lunga vita al Negroni, un sorso di spavalderia autentica nel tempo delle pose e del vorrei-ma-non-posso.