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 2019  gennaio 19 Sabato calendario

Celebrare se stessi, il nuovo male oscuro

La gestione del caso Battisti, con tanto di video che umilia il detenuto e mette a rischio l’incolumità degli agenti che lo hanno catturato, non ha nessuna giustificazione. È pura spazzatura politica, un gesto che squalifica chi lo ha compiuto e avvilisce chi ancora crede in cose come lo Stato di diritto, il senso delle istituzioni, il valore della sobrietà e della misura. Aggiungo che trovo incredibile che, sui media, già si parli di benefici e sconti di pena, come se una latitanza di 37 anni non fosse già, di per sé, uno sconto di pena più che soddisfacente. Ed è altresì vero che, nonostante alcuni precedenti imbarazzanti (ricordate le foto del detenuto Enzo Tortora?), nulla di simile si era mai visto in Italia. 
Detto questo, però, non riesco a non farmi una domanda: lo spettacolo che ci è stato offerto in questi giorni va messo interamente in conto alla politica, al suo imbarbarimento, alla sua degenerazione in salsa populista?
O dobbiamo registrare che, rispetto anche solo a 10 anni fa, è il nostro mondo che è completamente cambiato? O, per dirla in modo provocatorio: non sarà che la politica si limita a mostrarci, nelle sue conseguenze estreme, quel che un po’ tutti stiamo diventando? 
Non so se ci avete mai fatto caso ma, da qualche tempo, nelle nostre vite si sta installando un rapporto del tutto nuovo fra l’esperienza e la sua condivisione.
Fino ai primi anni del secolo scorso la maggior parte di noi faceva quel che faceva per i motivi più diversi e poi solo poi ed eventualmente decideva che qualcosa di quel che aveva fatto meritava di essere condiviso. Una piccola frazione della nostra esperienza poteva oggettivarsi in uno scritto, in una foto, in un video, in un racconto, il resto restava privato, in disparte, irrilevante, o semplicemente non abbastanza rilevante da avanzare la pretesa di essere diffuso, socializzato, o gridato al mondo. Oggi questo schema è capovolto: facciamo determinate esperienze per poterle condividere, o per suscitare ammirazione e invidia negli altri. E quel che non possiamo condividere, o non ci permette di ostentare noi stessi, ci appare per ciò stesso irrilevante, banale, noioso. E c’è persino chi lo teorizza: quando la povera Tiziana Cantone si suicidò per le sue foto hard fatte circolare in rete, ci fu anche chi ebbe il becco di spiegare che fare sexting (mettere in rete foto audaci di sé stessi, o dei propri rapporti sessuali) fosse assolutamente normale, qualcosa che poteva apparire stonato solo a retrogradi e bacchettoni incapaci di sintonizzarsi con lo spirito dei tempi. 
Accade così che ognuno di noi sia non solo indotto a fare soprattutto e prima di tutto quel che potrà condividere, ma anche continuamente invaso, quasi sopraffatto, dalle esperienze altrui, per lo più via internet: foto, messaggini, mail, pubblicità, video, app, quasi sempre banali, seriali, per lo più significative solo per il mittente. Voglio dire che mettere in rete sé stessi è diventato quasi un riflesso automatico. Pensare sé stessi come autori di una sceneggiatura, nonché registi di una pièce che dovrà avere la massima audience, è diventata una sorta di seconda natura. Possiamo stupirci che i politici sentano il medesimo impulso? Possiamo illuderci che qualcosa come il decoro, il buon gusto o il senso delle istituzioni li possa frenare? Dopo tutto la loro vita e le loro gesta sono infinitamente più rilevanti delle nostre, e la loro sete di consenso è infinitamente più insaziabile delle nostre quotidiane pulsioni. Questo certamente non li giustifica e non li assolve, ma ce li mostra più vicini a noi stessi di quanto siamo disposti ad ammettere.
Né si tratta solo del cattivo gusto, dell’invadenza, che sono impliciti in ogni eccesso di condivisione. Ci stupiamo del fatto che i politici si insultino, trattino il nemico come avversario, cerchino di sopraffare ogni interlocutore che non li asseconda. Ma forse dovremmo riflettere sul fatto che la stessa volgarità di parola e di pensiero, come la chiama Enrico Letta nel suo ultimo libro (Ho imparato, Il Mulino), è onnipresente: non solo negli haters, gli odiatori di professione che infestano la rete, ma anche nei media: trasmissioni radiofoniche scientemente costruite sul turpiloquio e il disprezzo, conduttori televisivi che aizzano i politici l’uno contro l’altro, dibattiti in cui c’è spazio solo per chi è capace di sopraffare l’interlocutore.
A tutto questo ci siamo abituati, al punto che non ce ne accorgiamo più, lo consideriamo naturale, fisiologico. Forse ci diverte persino. Per questo la sacrosanta indignazione di tanti commentatori per la strumentalizzazione del ritorno di Battisti da parte del governo giallo-verde è destinata a restare lettera morta. Indignati con la politica, hanno perso la capacità di vedere l’abisso in cui è caduta la vita quotidiana al tempo della condivisione. Eppure è di lì che è giocoforza partire: solo quando cose come insulti, volgarità, sexting, ostentazione, sciatteria avranno smesso di apparirci cose normalissime, diventeremo capaci di vedere a occhio nudo, senza editorialisti che ce lo spiegano, il degrado che affligge la politica e le istituzioni.
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