Corriere della Sera, 19 gennaio 2019
Intervista a Bob Wilson
Con Bob Wilson, maestro della regia moderna, partiamo dal «suo» Trovatore che, diretto da Pinchas Steinberg, martedì inaugura Bologna, e a passi rapidi raggiungiamo il suo pianeta estetico.
Come può raccontare un’opera drammaturgicamente così buia e scura un regista che lavora con la luce, l’elemento che in lei definiscono tempo e spazio?
«Il mondo che Verdi descrive in quest’opera è buio. È un viaggio attraverso diverse notti, così ho usato i colori dell’oscurità. Dall’inizio alla fine di questa storia passano mesi. Vediamo soltanto frammenti di vite. Ma tutto accade nella notte. La luce non è decorazione ma architettura, è come un attore, è qualcosa che ci aiuta a ascoltare e a vedere».
Aveva detto che non avrebbe mai fatto Verdi. Perché?
«I suoi lavori sono prodotti in eccesso, è reso in maniera ampollosa in allestimenti stravaganti e in una recitazione sopra le righe. Devi fare poco, con Verdi. La sua intimità e bellezza interiore vengono spesso trascurate».
Lei qui usa «cartoline» vintage che evocano la gente del tempo di Verdi.
«L’ho definita la realtà parallela silenziosa, è un contrappunto necessario ad apprezzare le altre parti dell’opera. Sono interessato ai movimenti immobili e al suono del silenzio: le chiavi del mio lavoro. Non cerco di illustrare il testo, ma una forma o un’immagine per accompagnarlo. Creo uno spazio per ascoltare meglio la musica».
Le «cartoline» significano che è ambientata all’epoca di Verdi?
«No, i miei lavori non sono ambientati in un’epoca specifica. Ci sono immagini al cambio di secolo, armature medievali, costumi del XVII secolo. Ma l’allestimento ha una sua forma classica. Non c’è ragione di modernizzare Verdi. Il dramma è nella musica. Quest’opera è fatta di strati diversi. C’è il mondo feudale dei trovatori e il mondo della memoria. A volte coesistono in maniera indipendente, raramente entrano in contatto. Lavoro separando i diversi elementi, parole, musica, movimenti, luce, scenografie, e poi li combino insieme».
La psicologia dei personaggi la interessa?
«No, non ho mai detto a un attore: questo significa che… Io realizzo una struttura rigorosa nel movimento, non nel pensiero. Le mie indicazioni sono formali: più lento, più svelto, più interiore, più tranquillo, più forte. Talvolta ai cantanti dico: tu credi troppo in ciò che stai dicendo, dunque non sei credibile. Ma trovo che tutte le opere di Verdi che ho portato in scena si prestino all’astrazione. Nei miei allestimenti c’è un uso astratto del gesto, che spesso non illustra una situazione».
Pensa che potrà nascere un metodo Wilson, così come avvenne per Visconti? Avrà degli eredi artistici?
«Spero di no. Il mio lavoro è qualcosa di veramente personale, che viene dalla vita vissuta. Ho imparato a fare teatro facendolo, come impari a camminare camminando. Lincoln Kirstein, cofondatore del New York City Ballet, disse: la danza moderna non avrà una tradizione. Non voglio lasciarmi alle spalle una scuola o un modo di fare le cose. Non lancio messaggi ma domande, è come guardare un paesaggio che muta e cambia. Ho le mie idee: non le impongo».
All’inizio di carriera, trovava noiosi prosa e lirica; la rivelazione con Balanchine.
«Mi piaceva Balanchine, e più tardi Visconti. Ora mi piace il lavoro di Romeo Castellucci. Sono arrivato a New York nei primi anni 60 da Waco, Texas. Non avevo mai visto un teatro prima. Non ero mai entrato in un museo o in una galleria d’arte. A New York sono andato a Broadway, e non mi piaceva. Non mi piaceva la psicologia e il pensiero pesante. L’opera mi sembrava anche peggio, superficiale e melodrammatica».
Allora?
«Quando cominciai a seguire la danza moderna, Martha Graham, Balanchine, Merce Cunningham, mi si aprì un mondo: balletti astratti in forme architettonici disposte nel tempo e nello spazio. Scoprii Rauschenberg, Lucinda Childs, Yvonne Rainer, Meredith Monk, Philip Glass, Jack Smith. Lavori astratti senza una strada narrativa. I coreografi che per la prima volta vidi a New York ancora oggi influenzano il modo in cui strutturo il mio lavoro».
Per lei, il pubblico americano è sciovinista e limitato, un paese troppo giovane per avere consapevolezza culturale. Si sente «figlio» dell’Europa nel suo lavoro?
«Il pubblico americano vuole risposte veloci in stile tv; quello europeo è più disposto a smarrirsi, perdersi».