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 2019  gennaio 18 Venerdì calendario

A proposito del libro di Enrico Letta

Dalle anticipazioni del nuovo libro dell’ex premier Enrico Letta (Ho Imparato, edizioni il Mulino) si legge: «Beppe Grillo, Matteo Renzi, Matteo Salvini. Uomini dai percorsi e dai profili molto diversi, eppure accomunati da un tratto ben chiaro: tutti e tre si sono serviti dell’idea della distruzione dell’avversario per farsi largo e raggiungere il potere». La regola della convivenza democratica, aggiunge Letta, sarebbe quella del «riconoscimento reciproco delle forze politiche», mentre il vaffa di Grillo, la rottamazione di Renzi e la ruspa di Salvini sono armi per abbattere il nemico tramite delegittimazione. È vero, ha ragione Letta, sebbene sia un po’ avaro nel circoscrivere al terzetto l’uso della pratica. L’intera Seconda repubblica - Letta ricorderà - è nata sulla delegittimazione della Prima, dichiarata da rottamare con la ruspa e un bel vaffa perché residente in Tangentopoli. Tutto il resto non contava più: che avesse scritto la Costituzione repubblicana e antifascista, che fosse prosperata nell’anticomunismo, che avesse prodotto il boom economico portatore di ricchezze e tutele sociali mai viste, che avesse garantito un decente funzionamento democratico. «Ci deve essere una epurazione del ceto politico, quelli che sono stati il simbolo di una stagione fallimentare moralmente e politicamente se ne devono andare a casa». Questo è Massimo D’Alema, 1993, con cui Letta in seguito avrebbe imbastito qualche governo. Epurazione dei simboli.
E che cosa è una epurazione dei simboli se non la delegittimazione per quello che uno è, e non per quello che fa?

D’Alema pronunciò quella frase tremenda sebbene sapesse che il Pci e il Pds avevano campato anche di mazzette almeno dagli Anni Settanta, e almeno fino al miliardo di lire consegnato da Carlo Sama a Botteghe Oscure, e in Parlamento rimase seduto - come tutti gli altri - quando Craxi precisò che la corruzione era una questione giudiziaria ma anche politica, e andava affrontata anche politicamente, poiché nessun partito ne era stato alla larga. E rimase seduto per ricavarne il suo guadagno politico: il delegittimato doveva essere Craxi e solo Craxi. Anzi, non solo. I socialisti erano i corrotti e i democristiani erano i mafiosi. Letta ricorderà la guerra civile dentro la sua Dc, che scalò vette sublimi quando Rosy Bindi (altro capintesta della Seconda repubblica) intimò a Giulio Andreotti di consegnarsi ai giudici «perché non credo nella sua innocenza». Non male come delegittimazione prima che la legge si sia pronunciata. Non male come calcio negli stinchi allo stato di diritto, perfetto e spavaldo uso della delegittimazione. 
E così, delegittimata un’intera tradizione politica democratica, ci trovammo nel paradosso che due soli partiti, con radici nell’antidemocrazia fascista e comunista, erano legittimati a governarci: il Movimento sociale e il Pds. Se non fosse arrivato Silvio Berlusconi. Il cui fallimento è politico e soltanto politico - riforme promesse e mai realizzate, una destra liberale mai fondata, una classe dirigente svilita e annacquata a beneficio degli ubbidienti. Ma per venti anni è stato combattuto sulla scorta di inchieste giudiziarie a ripetizione, è stato combattuto perché era amico di Craxi, perché c’era Dell’Utri, perché chissà da che originava la sua ricchezza, perché aveva le donnine nel seminterrato di Arcore, una delegittimazione a tappeto sulle carte d’indagine propalate a mezzo stampa. Ricordo ancora la faccia sbigottita di Bindi (ancora lei) quando in Parlamento uno dei cinque stelle si alzò a schiamazzare sul Pd di stampo mafioso, a lei, abituata a dirlo degli altri. Ma come pensava che andasse a finire? 
Non vorrei farla troppo lunga: come al solito qui non ci sono colpevoli né innocenti, da venticinque anni i partiti e i capi di partito cercano di rubarsi il consenso accusandosi l’un l’altro di ladrocinio, di concorso esterno e interno con le cosche, di collusione con la finanza turbocapitalista, con le banche del gatto e la volpe, coi poteri forti, contando di guadagnarsi il titolo di unici puri e unici onesti, e senza rendersi conto che tutto è diventato indistinguibile, che la delegittimazione è diventata una sparatoria in cui nessuno poteva restare in piedi. Pur di delegittimare il nemico, lo si è delegittimato persino all’estero (ricordate Martin Schulz che ci dichiara uno Stato pressoché criminale?), era più importante eliminarlo che perseguire il bene del Paese e dunque, altro che sovranismo, oggi non abbiamo nessuna idea di nazione e non diamo nessuna idea di nazione. Conta soltanto il partito e la sua sopravvivenza. 
Non è esclusivamente una questione politica, va precisato. Conduciamo una vita collettiva da gangster, nel senso che le celebri élite, di ogni natura e a ogni livello, hanno pensato di trarre profitto dalla delegittimazione del contendente: basta vedere i giornali, che non sono più contenitori di idee e di notizie, ma di verità che gli altri non pubblicano perché sono al soldo di questo o di quell’altro, perché sono organici alla cricca, perché hanno il loro bel tornaconto. Ci diamo dei sicari a vicenda, e allora ognuno è autorizzato a considerarci una congrega di sicari. Mica è finita qua. Quell’architetto fa il ponte perché è comunista/fascista, quel professore d’economia è consulente del governo perché fu compagno di banco del sottosegretario, quel cantante presenta Sanremo perché intona la casta in rima baciata, nessuno è giudicato per quello che fa e sa, tutti sono pregiudicati per quello che sono o si pretende siano. 
Poi, certo, ci sono i corrotti, i mafiosi, i ladri, i servi, tutto questo c’è, ma come diavolo abbiamo potuto trasformarlo in una storia e in una cronaca corale? Non ho ancora letto il libro di Letta ma quello che ho imparato è che, in Italia, se l’élite (chiamiamola così) ripara braccata nella sua ridotta di Valtellina per la colpa di essere élite, è anche perché si è trattato del più spettacolare e allucinato dei suicidi di massa.