la Repubblica, 18 gennaio 2019
Storia di come crollò il Muro di Berlino
Berlino, trent’anni fa, è ancora una capitale divisa in due. Inizia da qui il viaggio di Ezio Mauro in dodici tappe nell’evento che ha cambiato la storia del Novecento, ponendo fine alla Guerra fredda Finì il brusio. Lui portava la camicia bianca anche quel giorno, e una cravatta di nomenklatura larga con le righe sottili, sotto il vestito scuro con lo stemma del partito all’occhiello: due mani robuste da lavoratore che si stringono davanti alla bandiera rossa. Ma quando si alzò dal tavolo d’onore, inclinando verso il pubblico in sala i suoi 77 anni, Erich Honecker sembrò soprattutto un vecchio, coi suoi capelli bianchi che testimoniavano il tempo passato dal 1971, quando aveva conquistato il partito, il potere, lo Stato e l’intera Ddr, tenendo tutto in pugno per 18 anni. Si aggiustò gli occhiali davanti alla tribuna, senza sapere che avrebbe ripetuto lo stesso gesto, meccanicamente, tre anni dopo di fronte al tribunale tedesco che lo accusava di omicidio criminale e abuso di potere, quindi pronunciò davanti ai tre microfoni, scandendola, la sua ultima profezia sovrana, che voleva essere un atto di fede ma risuonò piuttosto come un esorcismo: «Il muro esisterà ancora, anche fra cinquanta o cent’anni, finché non verranno meno le premesse che lo hanno reso necessario». Intorno a lui, tutto sembrò per un attimo immutabile, come sempre: la tribuna di legno chiaro, i fregi a far da cornice, l’applauso dei dirigenti. Ma era un sabato ingannevole quel 18 gennaio, come la temperatura insolita che segnava 7,3 gradi a Berlino. Lentamente, l’anno era appena incominciato. E l’anno era l’incredibile 1989. Nessuno sapeva che sarebbe stato l’anno dei miracoli. Gennaio era arrivato anonimo, dopo una vacanza ordinaria, con qualche merce in più (soprattutto salumi) nei negozi per le feste, e addirittura – raccontava qualcuno – introvabili bottiglie di vino georgiano. Certo, l’anno vecchio era finito con qualche fuoco artificiale nel cielo disabitato del comunismo europeo. In Jugoslavia per la prima volta la crisi economica a dicembre aveva fatto cadere il governo, costringendo Branko Mikulic alle dimissioni; in Ungheria il parlamento aveva accettato di discutere un progetto per introdurre il pluralismo con partiti indipendenti e non comunisti; in Polonia Lech Walesa aveva addirittura costituito un governo ombra; e infine Mikhail Gorbaciov aveva appena annunciato nel suo discorso all’Onu il ritiro unilaterale e senza condizioni di 500 mila soldati sovietici, 10 mila carri armati e 800 aerei dall’Europa. «Quest’uomo è sincero», aveva commentato il segretario di Stato americano George Shultz, dopo l’inconsueto incontro a tre a New York del leader dell’Urss coi presidenti entrante e uscente degli Stati Uniti, George Bush e Ronald Reagan. Ma erano altri i segni, bizzarri, minimi, e tuttavia trasgressivi e insistenti, che a Berlino Est si osservavano con inquietudine. Come mai sull’aereo al seguito di Gorbaciov (battezzato sottovoce nientemeno che “Glasnost one") erano stati fatti salire per la prima volta registi, scrittori, artisti, disseminandoli poi nei talk show americani a parlare a qualsiasi ora di pace e riforme? Com’era possibile che un accademico come Gheorghi Arbatov, presidente dell’istituto sovietico per gli Stati Uniti e il Canada, si presentasse in televisione a sostenere il dialogo tra Mosca e il capitalismo, arrivando a dire che «in fondo quando vado da Bloomingdale’s o da Macy’s nessun commesso mi chiede se sono comunista, piuttosto mi chiedono la carta di credito»? Bloomingdale’s? Carta di credito? Roba mai vista. Come gli invitati alla cena newyorchese in onore di Raissa Gorbaciova a South Place, dove con i diplomatici dell’Onu e le signore Reagan e Bush sedevano a tavola la moglie dell’editore del Carol Sulzberger, la conduttrice dell’Abc Barbara Walters, la star del gossip Andrea Mehle, in arte Suzy, e infine la regina americana dei cosmetici e dei profumi Estée Lauder. Tra cipria e pettegolezzi, cosa stava capitando al vecchio blocco comunista, che aveva incatenato mezza Europa per quasi cinquant’anni senza badare all’estetica, tanto meno alle maniere e ancor più ai giudizi altrui, autocentrato per metodo, autosufficiente ad ogni costo, comunque impermeabile? Come se Woland coi suoi sortilegi diabolici capaci di rovesciare il mondo fosse tornato a camminare per i viali di Mosca, ora dal Cremlino arrivava la notizia del genero di Breznev – onnipotente padrone dell’impero comunista per 18 anni – condannato ai lavori forzati, mentre il nome del predecessore di Gorbaciov, Konstantin Cernenko, veniva cancellato per decreto dalle aziende e dalle scuole che gli erano state intitolate. Non solo: il giorno di Natale durante la messa cantata nell’unica chiesa cattolica di Mosca, San Luigi dei Francesi, don Stanislaus Mazeika annunciò a sorpresa che papa Karol Wojtyla mandava in regalo ai fedeli di Russia la Bibbia tradotta in cirillico, che per decenni aveva circolato solo clandestinamente come un samizdat: e adesso usciva rilegata da trentadue scatole che contenevano ognuna 66 volumi, di fianco all’altare dove passarono in coda per giorni 2.112 persone a ricevere il sacro dono, mentre si chinavano a baciare la mano del vecchio parroco, facendo tre volte il segno della croce. Giovanni Paolo II si era anche affacciato in diretta per la prima volta della storia dalla televisione di Stato sovietica pregando per l’Armenia terremotata nella benedizione di Natale, ora davvero “urbi et orbi” grazie all’eresia gorbacioviana che mostrava agli spettatori sovietici di un Paese ufficialmente ateo il Papa di Roma, per di più slavo dopo duemila anni, dunque ex suddito ribelle rivestito dei paramenti sacri, regali e universali. Quasi contemporaneamente, in una sorta di compensazione pagana, sulla Moskovskaya Pravda era comparso all’improvviso un intruso inconcepibile per un giornale sovietico fin dal 1917, l’inizio di tutto: impaginato su tre colonne, illustrato con una candela e un corvo, firmato da Eremel Parnov specialista nelle arti della magia bianca e nera, era l’oroscopo, che con Saturno dominante nell’anno del Serpente, garantiva un ’89 benevolo per i Pesci, per i Gemelli, per la glasnost e per l’ambiente. Il cielo, sacro e profano, sapeva quanto il nuovo anno avesse bisogno di buoni auspici. L’Armata Rossa si preparava a portar via tutti i suoi uomini dall’Afghanistan entro il 31 gennaio, a Varsavia Jozef Czyrek a nome del generale Jaruzelski proponeva a Solidarnosc “un socialismo senza Lenin”, a Mosca gli scrittori chiedevano la riabilitazione di Solgenitsyn, negli Urali tre inviati americani venivano ammessi per la prima volta a visitare il gulag “Perm 35”, un campo di lavoro per detenuti colpevoli di reati d’opinione, mentre a Praga il 16 gennaio il potere non riusciva più a impedire – nonostante 1300 arresti – una grande manifestazione non autorizzata in piazza San Venceslao in memoria di Jan Palach, che vent’anni prima su quella piazza si era bruciato vivo per protestare contro l’invasione sovietica e contro la censura. Soltanto nei 108 mila chilometri quadrati della Ddr, la Repubblica Democratica Tedesca, il vento dell’89 faticava ad entrare, nemmeno col soffio controllato della perestrojka. Anzi, quel tentativo dei partiti comunisti al potere nell’Est europeo di aprire confusamente alle riforme per dar respiro alla dittatura, controllando i segnali di dissenso da popolazioni soffocate dalla penuria e dal peso del regime, spaventava la Sed, il partito-Stato tedesco orientale. Stretta tra la potenza risorgente della Repubblica Federale Tedesca e l’indebolimento crescente dei sistemi comunisti fratelli, la Germania dell’Est si rinserrava davanti all’urto dell’89, domandandosi quando mai fosse incominciato davvero: nell’autunno 1985, con l’ingresso di Gorbaciov al Cremlino? O prima, nell’inverno del 1981, con l’arrivo di Reagan alla Casa Bianca? O addirittura nell’agosto 1980, con il primo sciopero di Solidarnosc nei cantieri navali “Lenin” di Danzica? Resta il fatto che il cancello di ferro davanti al comunismo europeo adesso cigolava sui suoi cardini arrugginiti, e Berlino est con la sua chiusura impaurita e paurosa diventava improvvisamente il luogo di custodia dell’ortodossia ormai sotto minaccia ovunque, e soprattutto senza più fede. Incredibilmente, i capi del partito e del Paese pensavano di poter continuare così, mentre il mondo stava facendo un giro e il loro stesso universo di riferimento barcollava. Un segno di sclerosi politica più che di fiducia. Perché tutto intorno a loro si stava rovesciando. Erano costretti a limitare i viaggi di scambio universitari nei Paesi fratelli e le delegazioni accademiche all’Est, perché i tedeschi orientali tornavano contagiati e storditi dalla febbre dissidente e dall’ansia di cambiamento che si percepiva a Varsavia, a Budapest, a San Pietroburgo e a Praga. Non solo la grammatica comunista impazziva, ma la logica dell’impero si ribaltava. Fino all’impensabile, quando la Ddr cominciò a censurare tutto ciò che arrivava da Mosca, togliendo dalla circolazione cinque film sovietici, cancellando dalla tv di Stato le dichiarazioni più radicali di Gorbaciov, fino a far sparire la rivista Sputnik, che portava in tedesco il verbo della perestroika a 180 mila abbonati, e per questo fu messa al bando un giorno di novembre, come si faceva con i newsmagazine dell’Occidente capitalista e nemico, e pudicamente con Playboy. In un paradosso comunista, tuttavia, la popolazione di Berlino Est era contemporaneamente la più sorvegliata (insieme coi sudditi romeni di Ceausescu) e la più informata. Per anni all’asilo e nelle elementari i maestri avevano chiesto ai bambini di disegnare in classe i loghi dei canali televisivi che i genitori guardavano in casa, per scoprire le trasgressioni al divieto di seguire programmi occidentali, peraltro già boicottati dal regime nell’etere, prima che scendessero clandestinamente nelle case. Ma la battaglia era ormai perduta. La sera del discorso di Honecker il primo canale tv tedesco-orientale trasmetteva pattinaggio, pallavolo e un documentario sui “40 anni della Ddr”, ma con qualche fatica – e a basso volume, con i figli a letto – si poteva raggiungere Yves Montand in Garçon sulla rete della Germania occidentale ARD, il documentario sui gas tossici in Libia sulla ZDF, su N3 Roma città aperta di Rossellini, e sulla Pro7, quando arrivava il segnale, persino Starsky & Hutch. I sudditi sapevano. Così, accadde. Di notte a Lipsia l’11 gennaio qualcuno infila i primi volantini del dissenso nelle cassette per la posta delle famiglie che dormono. Sono firmati da “Iniziativa democratica per il rinnovamento della nostra società”, e invitano tutti a una manifestazione nel settantesimo anniversario dell’assassinio di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, fondatori della Lega di Spartaco. Per tutta la mattina si vedono falsi operai che infilano pinze lunghe e sottili nelle buche delle lettere alla caccia dei volantini, quattro attivisti vengono arrestati, ma il giorno dell’appuntamento, il 15, ci sono 800 persone in piazza nel pieno centro di Lipsia, sfilano fino alla casa di Liebknecht, arrivano davanti al civico 15 di Branstrasse, dove i Vopos, la “Polizia Popolare”, ferma i primi 190 dissidenti dell’89. Ecco perché tre giorni dopo Honecker giura sull’eternità del Muro, ottenendo una immediata e singolare eco dal ministro degli Esteri sovietico a Vienna per la Conferenza e la cooperazione in Europa: «Io non credo che il muro di Berlino sia argomento di negoziato – risponde infatti Eduard Shevardnadze a George Shultz che lo aveva appena invitato ad abbattere la barriera —. D’altra parte ciascuno ha il diritto di munire le proprie frontiere nel modo che ritiene più opportuno». Divisi ormai su quasi tutto, Mosca e Berlino est si trovano fianco a fianco solo davanti alla potenza del muro e al suo mito simbolico, uniti infine proprio da ciò che è nato per dividere. È come se fosse l’ultima garanzia, la suprema cauzione, il tabù finale di ogni superstizione comunista. Quasi che il regime – in ogni lingua dell’Est, in qualunque Paese – avesse sacralizzato la propria insicurezza costruendo nella pietra del cemento e nel ferro del filo spinato il monumento fisico alla propria eternità metafisica. Un santuario del presente immutabile, dunque un altare del terrore della fine, la prova evidente dell’onnipotenza di un regime, e la conferma del suo limite. Qui più che dovunque nel mondo l’ideologia trovava la sua materialità, si faceva sostanza delle cose, inanimata ma perenne. Qui e sulla Piazza Rossa di Mosca, nel granito di Lenin. Il comunismo di pietra. Una pietra rossa per l’inizio, una pietra bianca per l’epilogo. Il mostro vive in mezzo alla città, attraversa l’Europa, separa il mondo correndo per 156,4 chilometri, innalzandosi per tre metri e sessanta centimetri, affondando nel terreno per altri due metri e dieci, con il corpo composto da 45 mila sezioni di cemento. Vigila con 302 torri di sorveglianza. Si avvolge in 127 chilometri di filo spinato. Si protegge con 105 chilometri di fossato. Si rinchiude in 20 bunker. Si circonda con la “striscia della morte” coperta di sabbia ogni mattina rastrellata, in modo che se qualcuno la calpesta restino le impronte. Minaccia con tre brigate di frontiera munite di pistole, carabine, mitra, bombe a mano, Panzer russi T 34/85 e SU76, cannoni e contraerea. Dissuade con 18.300 reticolati, trappole anticarro, barriere con denti metallici, sirene d’allarme e riflettori. Spaventa con cinquemila cani pastore addestrati, i cani di confine con i denti rastremati dalla fresatrice, pronti all’impiego. Era dunque un’arma, non soltanto una barriera, un simbolo dell’assolutismo e non solo una trincea, una prigione ben più che una separazione. Riuscirono a superare il muro cinquemila tedeschi orientali con imprese folli, fantasiose, disperate. Morirono cercando di farlo 86 persone, più 27 guardie di frontiera dell’Est coinvolte in scontri davanti allo sbarramento, ma seguendo altri calcoli le vittime furono molte di più, 115 secondo una statistica, 227 se si contano tutte le morti collegate in qualche modo al muro. Un cimitero: come quello degli Invalidi dove arrivò il muro, sventrando tombe e memorie nelle sezioni G e H, passando tra i cippi e i monumenti nei campi E ed F, sfiorando giù in fondo la lapide grigia di Manfred von Richthofen, il “Barone Rosso”. Sono andato a vedere ciò che resta del muro, camminando per quel chilometro di persistenza testimoniale lungo la M?hlenstrasse, vicino alla vecchia stazione centrale della Ddr. Un simulacro del Novecento che testimonia il primitivismo del secolo, e restituisce intatta l’ossessione del comunismo per il dominio dello spazio come controllo del corpo, l’interdetto costruito nella pietra perché durasse per sempre, e la pietra che diventa norma per un altro ratto d’Europa, permanente. Oggi il cemento è vinto, il muro picconato e distrutto ha subito persino l’onta finale dei suoi reperti venduti all’incanto a Montecarlo, in un’asta per collezionisti e contesse. Ciò che resta a Berlino è ridotto ad archeologia politica spezzata, e tuttavia conserva nella sua misura minima la traccia perpetua dell’ottusità tragica del titanismo totalitario. Solo chi si sente come Dio padrone dei destini può decidere il perimetro delle vite altrui, richiudendo e aprendo i percorsi, credendo di separare il dentro dal fuori, mentre intanto nella vita di dentro separa i dominanti dai dominati. Tutto questo fino a trent’anni fa, dopo la danza macabra di Hitler, nel cuore moderno della cultura occidentale, che evidentemente come la bellezza non immunizza e non ripara: in fondo nel Doktor Faustus, quando cede al Maligno che appare sul divano accanto per proporgli il patto scellerato, Adrian Leverk?hn sta leggendo Kierkegaard. Poi si alza lo sguardo oltre il conto dei morti e dei prigionieri e spunta finalmente la città, continua? La Ddr cominciò a censurare tutto ciò che arrivava da Mosca, togliendo dalla circolazione cinque film e oscurando le dichiarazioni più radicali di Gorbaciov
costretta a sdoppiarsi dal muro che la violentava scindendola, a replicarsi, a vivere divisa con la memoria e la tensione dell’unità impossibile, in una dualità costante. Dunque obbligata a specchiarsi e a competere con se stessa inseguendosi, ad abitare nel suo doppio rinfacciandosi continuamente il confronto tra il bene e il male, come una dannazione. Oggi tutto è ricomposto, la città e il Paese, la storia e la tragedia, come se la caduta del muro contenesse il principio ordinatore della nuova Europa, finalmente libero dal sortilegio che lo imprigionava. Un miraggio già svanito. Sola e inutile, resta nell’aria la maledizione che Honecker pronuncerà davanti al tribunale di Berlino, dopo la riunificazione, e prima di andare a morire a Santiago del Cile, troppo vecchio e malato per essere condannato e recluso da una democrazia: «Sono io – disse alzandosi in piedi – il maggior responsabile del muro e del fatto che sul suo confine si sia sparato contro chi cercava di attraversare la frontiera. Ma penso che costruendo quel muro né io né i miei compagni ci siamo macchiati di alcuna colpa, non solo giuridica, ma nemmeno politica o morale». Poi si sedette fissando la Corte che lo giudicava, incredulo che la democrazia avesse infine vinto. Come se con la sua irriducibilità tenesse in mano, senza lasciarlo andare, l’ultimo lembo del Novecento, sperando invano che il secolo non riuscisse a finire.