Lettera43, 17 gennaio 2019
Come siamo arrivati al suffragio universale
Sarà forse l’incognita maltempo a falcidiare ulteriormente il numero di elettori che si recheranno alle urne domenica 4 marzo per il rinnovo del Parlamento. Certo è che, Burian o meno, le stime dei sondaggisti già lasciavano intendere una nuova flessione rispetto alla precedente tornata elettorale, quando l’affluenza del 75,1% per Camera e Senato aveva di fatto stabilito un primato negativo nella storia dell’Italia repubblicana, mai scesa prima di allora sotto la fatidica quota 80 alle politiche.
Si stima che siano tra i sette e gli otto milioni gli italiani che non hanno ancora preso una decisione, a fronte dei 46 milioni di aventi diritto al voto. Emg, Swg e Ixè sono pressoché concordi: difficile aspettarsi un’affluenza superiore al 70%.
La svolta del 1993
Sono numeri allarmanti, secondo molti, a cominciare dal capo dello Stato, Sergio Mattarella, convinti sostenitori che l’allargarsi della platea dell’astensionismo vada di pari passo con l’impoverimento della democrazia.
In realtà non è sempre stato così semplice esercitare il proprio diritto al non-voto. Fino al 1993 chi non si presentava alle urne veniva sanzionato in base all’articolo 4 del testo unico della legge elettorale (d.p.r 30 marzo 1957), secondo cui «l’esercizio del voto è un obbligo al quale nessun cittadino può sottrarsi senza venir meno a un suo preciso dovere verso il Paese».
A mettere nero su bianco i doveri del cittadino era tuttavia l’articolo 115, che recitava: «L’elettore che non abbia esercitato il diritto di voto, deve darne giustificazione al sindaco». E «l’elenco di coloro che si astengono dal voto senza giustificato motivo è esposto per la durata di un mese nell’albo comunale». Non solo. «Per il periodo di cinque anni la menzione ‘non ha votato’» veniva «iscritta nei certificati di buona condotta».
Una misura non banale, dato che per l’assunzione nei pubblici uffici poteva costare una penalizzazione rispetto a un altro candidato a parità di requisiti. La sanzione fu abolita nel 1993.
Dove il voto è obbligatorio
Oggi alcuni Stati conservano ancora le sanzioni per gli assenteisti. Un esempio? L’Australia, grazie a una norma che risale al 1924, prevede sanzioni da 26 a 170 dollari per chi non esercita il proprio dovere. Anche se, va detto, molto spesso una congrua giustificazione può bastare ad aggirarle.
Nel mondo sono complessivamente 26 i Paesi che applicano il voto obbligatorio. Detto dell’Australia, in Europa si ricordano i casi di Lussemburgo, Belgio (dove è in vigore la più vecchia legge sul tema), Grecia e Cipro. Maggiore la diffusione in Sud America, anche se il reale tasso di applicazione delle sanzioni resta opinabile.
In Italia già all’inizio del Novecento i giuristi e parlamentari Luzzatti e Saredo furono al centro del dibattito sul tema dell’obbligatorietà del voto e prima del fascismo ci furono delle proposte complesse, con tanto di sanzioni previste. Ma non se ne fece niente. D’altra parte, le tappe di avvicinamento al suffragio universale così come lo intendiamo oggi sono state numerose e articolate.
Per censo e per sesso: votare dopo l’Unità d’Italia
Prima della riforma, la legge elettorale si basava su quella del Piemonte estesa a tutto il Regno dopo l’Unità, che concedeva il diritto di voto ai cittadini di sesso maschile di almeno 25 anni che sapessero leggere e scrivere, che godessero dei diritti civili e politici e che pagassero un censo di imposte dirette non inferiore alle 40 lire.
Alle prime elezioni politiche del 1861, furono iscritti solo 418.696 cittadini, pari all’1,89% della popolazione. Vent’anni dopo, nel 1880, gli elettori furono soltanto 621.896, pari al 2,2% della popolazione totale.
La riforma elettorale, varata dopo lunghe discussioni parlamentari con le leggi del 22 gennaio e del 7 maggio 1882, allargava il diritto di voto ai cittadini italiani di sesso maschile che avessero compiuto il 21esimo anno d’età, sapessero leggere e scrivere, avessero superato l’esame di seconda elementare, o in alternativa, pagassero annualmente un’imposta diretta di almeno 19,80 lire.
La nuova legge elettorale, quindi, abbassò il limite di età da 25 a 21 anni e pose come requisito essenziale per esercitare il diritto di voto la capacità e non il censo. Da un lato ciò consentì un notevole allargamento del corpo elettorale, che passò nel 1882, in occasione delle prime elezioni indette con la nuova legge, a oltre 2 milioni di cittadini (2.017829), pari al 6,9% della popolazione totale, permettendo a una parte della classe operaia di partecipare alle elezioni.
La nuova legge, tuttavia, continuava a escludere dal voto gli analfabeti e i nullatenenti, oltre che le donne: le città e il Nord erano in sostanza favorite rispetto alle campagne e al Sud, dove l’analfabetismo e la povertà erano assai più diffusi.
Il suffragio universale
Il suffragio universale venne una prima volta respinto dalla Camera nel giugno del 1881. Solo nel 1912, una nuova legge elettorale, promulgata da Giovanni Giolitti, avrebbe concesso agli analfabeti il diritto di voto, purché avessero compiuto 30 anni o prestato il servizio militare.
Per essere ammesse ad esprimere la propria volontà politica le donne dovranno attendere fino al 1946 quando in Italia, dopo la Seconda guerra mondiale, l’esito del referendum sancì la nascita della Repubblica.
Ancora oggi è l’articolo 48 della Costituzione a definire il voto come «personale, eguale, libero e segreto». Il suo esercizio come «dovere civico» è frutto del compromesso tra i costituenti fautori del «voto obbligatorio» e i sostenitori del voto come «atto morale».
Resta aperta la questione se davvero l’obbligatorietà del voto possa aumentare l’interesse per la politica e se l’astensione non vada più considerata soltanto come una forma di disinteresse, quanto piuttosto una manifestazione del crescente disincanto e della sfiducia nei confronti della classe politica. Interrogativi ai quali studi e ricerche sembrano ancora non aver trovato una risposta univoca.